Ricette Vegetariane e Vegane

Siciliaia: 6 cose da mangiare in Sicilia

Siciliaia è un viaggio attraverso i profumi di Sicilia con iaia, sì. Tra ricordi, profumi e luoghi. Ne ho ticchettato (e continuo/continuerò a farlo)  su Instagram ma la mia intenzione è anche quella di approfondire i diversi argomenti  qui sul Blog. Cominciamo con qualcosa di dolce, che ne dici? Le prime sei cose, assolutamente irrinunciabili, che non dovresti perderti se sei in Sicilia; soprattutto nella parte Orientale perché è di questa che al momento mi sto occupando. Alla granita, è chiaro, dedichiamo un capitolo a parte.

La cotognata

*sospiro*
Per la cotognata non mi basterebbero 5000 battute (al minuto). Nonna Grazia la faceva. Lentamente con le sue formine disegnate: il sole, la luna, i ghirigori delle maioliche e pure svariati fiori. Mio papà andava matto per la cotognata -e la mostarda di uva e fichidindia- e mi diceva sempre “Amore mangiane un pezzettino”. Io, che ho sempre voluto somigliargli perché non riuscivo a immaginare niente di più bello, ne prendevo un pezzettino piccolissimo e dicevo “uh! Buonissima!”. Papà che mi conosceva bene, anche più di me stessa, sorrideva. Sapeva benissimo che non mi piaceva affatto e che la trovavo troppo dolce. E allora non insisteva neanche per un altro pezzetto. Ho visto fare cotognate e mostarde per una vita intera e l’ho sempre e solo mangiata quando papà me ne offriva un minuscolo pezzetto. Il cotogno viene citato da Catone, Plinio e Virgilio e pure dai Babilonesi. Viene da terre lontane il Cotogno, e fa frutti un po’ strani a metà tra una mela e una pere, tutti bruttarelli e pelosi. Non puoi mangiarli così, senza cuocerli. E allora con dei limoni e dell’acqua li fai bollire e deve sapere anche di gelsomino, sai? Ancora meglio. Cuoci a fuoco basso e poi per due o tre ore si deve abbracciare con il sole.
Adesso che papà non c’è più nessuno mi dice “Amore mangiane un pezzettino”. E allora lo faccio da me. E mi piace. Ma stavolta non me ne sono convinta. Il primo pezzetto lo mangio piccolo piccolo con la faccia un po’ corrucciata perché troppo dolce. So che papà sta sorridendo a quel punto, sulle nuvole. E poi il secondo e terzo pezzetto li mangio convinta e felicissima. Vorrei tanto avere nonna per chiederle la sua ricetta. Ma ho le sue formine che custodisco come tesori in un galeone. Come tutto quello che ho vissuto, cucinato, mangiato e condiviso con loro.
La migliore cotognata è da Russo a Santa Venerina e no. Non te ne consiglierei altre.  Sempre da Russo puoi trovare degli strepitosi cornetti con la marmellata di mele cotogne. Delizia.

 

Mostarda d’Uva e di Fichidindia

Mostarda d’uva e Mostarda di Fichidindia. Un tempo era uso comune conservare i prodotti dolci nelle burnie (a Catania si dice brunie). Nei giorni di festa venivano aperte e la casa era invasa di cannella, vaniglia e gelsomino. La mostarda d’uva e anche quella di Fichidindia, proprio come la cotognata, rappresentano un momento di festa. A seconda del luogo della Sicilia in occasioni diverse ma sempre festa è. Nel territorio catanese essendoci una sovrabbondanza di fichidindia ci sono diverse preparazioni particolari e gustose. I fichidindia in questo caso vengono schiacciati e fatti cuocere mischiati all’amido e poi sistemati in appositi stampini di terracotta umidi che vanno poi esposti al sole. Discorso leggermente diverso per la mostarda di racina (uva). È un dolce tradizionale della vendemmia che viene preparato in tutte le parti della Sicilia, essendo le viti onnipresenti nel territorio. Ognuno poi la cuoce e aromatizza in modi diversi. Si deve prendere il mosto cotto e si deve cuocere sul fuoco. Stecche di cannella e vaniglia sono i profumi che si scatenano immediatamente nelle narici e nel palato. Le Mostarde, come la cotognata, sono sapori antichi e particolari. Non riesci a trovarli ovunque, se non hai la fortuna di avere ancora una nonna che li prepara vicino il pozzo dell’orto, come me. Ho questa immagine di lei. Instancabile lavoratrice con un fazzoletto in testa, come quelle siciliane disegnate. E come loro stava davanti la porta seduta su una sedia intrecciata. Nonna mi ha cresciuto insegnandomi quello che la vita poi altrimenti non avrebbe fatto. La mostarda e la cotognata sono in assoluto gli scrigni di chi ha avuto la fortuna di poter assaggiare la Sicilia antica. Grazie Nonna.

 

 

Ciottolini di Marzapane

Un ciottolino di Taormina nella tasca dei pantaloncini, una pietra piatta e liscia di pietra lavica a San Giovanni Li Cuti da esporre in salotto e spiegare agli amici, un pezzo grezzo di pietra lavica recuperato durante la passeggiata ai crateri e un po’ di polvere di lava da mettere in una bottiglia per ricordarsi che non è solo nera ma ha l’arcobaleno dentro. E poi Mondello. La sabbia. Portopalo. Questo è il souvenir che hai scelto e adottato. Che ti ricorderà della mia -e adesso anche tua- isola. Che ti riporterà a quel bagno. A quell’odore di brioscia e al gusto ghiacciato di granita e cremolata. Tra i ciottoli e i pezzettini di terra che ti porterai ce ne sono altri che potrebbero piacerti, sai? Hanno le sfumature delle onde, della lava, del sole e pure intrecci e trame che disegnano le rovine e le meraviglie. Sono antichi i ciottolini di marzapane e alcuni odorano di anice. Non si trovano sempre ma quando accade è una magia. È come trovare una conchiglia, di quelle tonde arrotolate, che avvicini all’orecchio e senti il rumore dell’acqua e dei tuffi.
Io li compro sempre da Russo, a Santa Venerina, perché se mi leggi sai che è il mio posto del cuore. Quello per cui farei anche più chilometri. Trovare lì le signore più dolci -che sembrano disegnate dalla matita di Miyazaki- è sempre una conferma per me. Un momento senza tempo. E un moto d’orgoglio perché senti l’odore della tradizione. Quella vera e autentica.
Adotta un ciottolino anche tu. Di marzapane e non.
Sarà un fido amico, come tutti i siculi che si rispettano.
Ciottolino è un nome che piace a Ombretta e Giulia. Ecco, loro sono due dei ciottolini che compongono la mia strada. Quella che percorro sempre e da sempre. Quella che mi riporta sempre e solo a casa.

 

U pani cunzatu

Se mi prometti  che non lo dici a nessuno devo confessarti una cosa. Però, davvero, a nessuno. Non mi piace l’arancino -né con la o né con la a- e nella pizzetta toglievo sempre il formaggio e rincollavo tipo una puntata di Art Attack l’oliva nera proprio al centro. Neanche tanto la cartocciata perché dovevo togliere il prosciutto cotto (anche quando ero piccola, sì. Perché era rosa come l’amico maialino e io al maialino ero affezionata. Non dire niente. Problematica fin da piccola). E allora “come ci sei diventata 140 chili, Iaia?”. Te lo dico subito! Con il pane e pomodoro e sei chili di maionese per ogni “panino” da seicento grammi. Con il gelato e il cioccolato. Ah sì. E pure con le patatine. Ossessiva e compulsiva da sempre nei confronti del cibo, tutt’oggi, disturbo alimentare a parte, non me lo sono propriamente goduto come si potrebbe credere con il mio passato da obesa grave.
Sempre le solite cose e in enormi quantità. Il riassunto è questo. Ma ho sempre avuto -e ho- un debole. E il mio debole è il pane. Mangerei pane senza niente, pane con il pomodoro e pane con l’olio per tutta la vita. Ma quale pizza, pizzetta e pasta. Io appartengo alla religione del pane a tutte le ore e in tutti i modi. Vorrei infilarmi dentro una mafaldina calda. Oh! Non dimentichiamoci tutti i nomi del pane che trovi in Sicilia, ok? Devo ricordarmene.
Il primo in assoluto, il re indiscusso è: U CUCCIDDATU! La nonna Grazia e la zia Mimma -la sorella della nonna di cui ti ho parlato tantissime volte- lo facevano sempre insieme alle pizze oliose e alle scacciate.
Il cucciddatu -che alcuni amano italianizzare in coccellato- nelle diverse province viene declinato in infinite variazioni ma ce ne è una universalmente riconosciuta nella Trinacria: U CUCCIDDATU CUNZATU! U PANI CUNZATU! Oh, io piango dall’emozione solo a pensarci.
La forma è quella a ciambella e l’etimologia non è distante dalla coullura greca su cui ti ho tanto annoiato nel periodo di Pasqua quando sforno le cuddure. Oh, io piango dall’emozione solo a pensarci.
La forma è quella a ciambella e l’etimologia non è distante dalla coullura greca su cui ti ho tanto annoiato nel periodo di Pasqua quando sforno le cuddure. Dentro c’è olio in abbondanza, sale, pepe, formaggio pecorino siciliano o tuma o qualsiasi delizia del genere, pomodoro e via. Ma pure solo olio, sale e acciughe. Ma pure solo pomodoro, olio e rosmarino. E con il prosciutto. E con il crudo. E con qualsiasi cosa. Nel catanese non è difficile trovare pure una sorta di Norma con delle meravigliose melanzane fritte. Si deve prendere il pane (in alcune zone della Sicilia al posto del cucciddatu c’è il classico sfilatino o una forma tutta intera chiamata vastedda) appena sfornato (o altrimenti da riscaldare), aprirlo e praticare dei tagli nella mollica per facilitare l’assorbimento dell’olio. Versare l’olio senza farsi saltare in mente l’idea di essere morigerati e schiacciare chiudendo il pane con l’altra parte per far assorbire l’olio. Poi si riapre e si mettono i pomodori a fettine e pure se vuoi le acciughe e il formaggio. Oppure quello che hai scelto. E poi giù di pepe. Io lo amo con le olive nere e il pomodoro con poco rosmarino. Santo cielo mi sento male solo a pensarci. Mi ricordo di papà. Le domeniche prima di andare a mare. Ci fermavamo in un posto  prima di andare a Portopalo. Ricordo la Signora che lo faceva. Il volto. I suoi vestiti fiorati e pure quei capelli cotonati. Lo avvolgeva nella carta marrone del pane e tutto l’olio si propagava facendo dei disegni circolari bellissimi. E io ci vedevo delle mucche.  A volte dei cuori. Altre volte ancora delle nuvole e dei pinguini. Papà me lo passava e io lo tenevo stretto a me. Caldo caldo che bruciava il costumino all’uncinetto. Poi mi sorrideva e mi diceva “andiamo Amore mio. Ora ce lo mangiamo caldo caldo!”. E io, te lo dico onestamente, dopo il dimagrimento ho avuto così paura del pane. Così paura da rifiutarlo. Da odiarlo. Da eliminarlo insieme a tutto quello che mi poteva ricordare cosa ero diventata a causa sua.
Adesso sto cercando di farci pace. Di ritornare quella bambina con il costume all’uncinetto che non ha paura di vedere che forma regala l’olio. E sicura che papà sarebbe felice di mangiarlo di nuovo. Insieme.
Prima di andare a mare.
Felici.
Ti prego mangialo anche tu il pane cunzatu prima di andare a mare.

 

Il Pezzo Duro

 

Quanto amava il pezzo duro il mio papà. Proprio non te lo posso neanche raccontare. Era golosissimo -come me- di dolci e in particolar modo del gelato. Diceva sempre “se c’è il gelato non posso dormire sereno. Deve finire!”. Papà era un maratoneta ma in generale un grandissimo sportivo. Amava le immersioni, allenarsi pedalando oltre che correre ogni giorno e non in ultimo sciare sull’Etna. Seguiva un’alimentazione sana, non beveva e non fumava. Insomma un esempio per me anche in questo, dopo una vita alimentare sregolata. Arrivati però al gelato o ai dolci perdeva la ragione. Ci siamo incontrati parecchie notti scalzi davanti al frigo. Lui con la vaschetta in mano e io pronta a prendere il cucchiaino per tuffarmici dentro. Il pezzo duro, che alcuni chiamano scumuni, è un gelato e dolce antichissimo della tradizione siciliana quando gli arabi dominavano l’isola veniva servito in occasioni importanti. Ci sono infinite varianti: al pistacchio, con i canditi, con panna e senza, con lo zabaione, al cioccolato o vere e proprie cassate con gelato alla ricotta al sapore di cannella e infiniti sapori. La varietà nel tempo si è moltiplicata e i pezzi duri -anche in versione intera simil zuccotti- sono onnipresenti nelle pasticcerie. Monoporzioni che ti faranno gridare al miracolo pronte per essere mangiate anche in piedi con piattino e cucchiaino. Il pezzo duro è un must e devi assolutamente prenderlo perché a buon diritto va inserito nella lista -infinita mi rendo conto- da assaggiare.
Magari un giorno di questi facciamo la top ten (anche se io ragiono, come sai, per 12! La Top twelve, facciamo!) perché in direct ricevo velate e dolcissime minacce ogni giorno con: “Sì iaia ma dimmi solo le cose più importanti altrimenti prendo dieci chili!”.
Oh, però, intendiamoci: i chili in Sicilia vanno presi e senza rimorso. Sono chili. E come arrivano, vanno via. Lanciamo le bilance in aria e godiamoci il momento. Non è un numero variabile che deve condizionare le nostre giornate e soprattutto il nostro infinito valore e autostima.

 

La Brioscina Tomarchio

La brioscina Tomarchio. Parliamone.
I piccoli catanesi -non parliamo poi di quelli degli anni 80- hanno fatto colazione e merenda con questa brioscina che è entrata a buon diritto a far parte della lista dei simboli gastronomici più famosi. Gli ingredienti sono semplici: uova, farina, grassi e agenti lievitanti. Il sapore è neutro e per capirci è un piccolo cupcake. E lo è sempre stata, anche quando neanche si sapeva cosa fosse un cupcake. Con una carta plissettata a contenerla cominciava il rito. La sfogliavi lentamente e poi in un sol boccone o in due o in tre, se non pizzicata un po’ di volte come gli uccellini. Imbottita di nutella e riempita di crema alla vaniglia o alla cannella e non in ultimo al cioccolato. Potevi arricchire così la broscina più gettonata; certo i flauti e le crostatine andavano tantissimo ed era sempre bello trovare la gomma, il pacchetto a fiammifero e scambiarsi le sorpresine. Solo che la Tomarchio era rassicurante. Non aveva un packaging accattivante come il resto dei prodotti nazionali e neanche delle sorprese come incentivo. Eppure era casa, la brioscina. Semplice e diretta. Onnipresente nei cestini dei bambini e nelle dispense, la brioscina Tomarchio ha cambiato confezione esterna ma fortunatamente non quella interna; perché ogni brioscina è singolarmente confezionata proprio per agevolare i viaggi -tra i ricordi soprattutto- cui è soggetta. Un giorno di questi te la mostrerò in una veste più da movida catanese dove si trasforma in frappé ma la presentazione ufficiale andava fatta. Non era così inusuale vederla servita con la granita al mattino, soprattutto nelle giornate estive in quelle piccole case a mare con i pesci di ceramica di Caltagirone e pure la barca a velo di legno che se la muovi un po’ crolla perché la base non regge mai. Ci hai fatto caso? Non so se tra tutto il catalogo infinito di prelibatezze valga la pena entrare in un supermercato per acquistarle ma se sei in Sicilia e vuoi viverla anche con il cuore, beh. Allora entraci in quel supermercato. E la troverai.

 

 

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Iaia
Iaia
Grazia Giulia Guardo, ma iaia è più semplice, è nata il 12 12 alle 12. Il suo nome e cognome è formato da 12 lettere ed è la dodicesima nipote. Per quanto incredibile possa sembrare è proprio così. Sicula -di Catania- vive guardando l’Etna fumante e le onde del mare. Per passione disegna, scrive, fotografa, cucina e crea mondi sorseggiando il tè. Per lavoro invece fa l’imprenditrice. Digitale? No. Vende luce, costruisce e distrugge. Ha scritto un libro per Mondadori, articoli per riviste e testate e delira pure su Runlovers, la comunità di Running più famosa d’Italia; perché quando riesce nel tempo libero ama fare pure 12 chilometri. Ha una sua rivista di Cucina, Mag-azine, che è diventato un free press online. È mamma di Koi e Kiki, un labrador color sole e uno color buio, mangia veg da vent’anni, appassionata di cinema orientale e horror trascorre la sua giornata rincorrendo il tempo e moltiplicandolo.

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