È nato Wax Museum: I primi due capitoli

Inktober 2020: è stato proprio un anno, complesso sotto tutti i punti di vista. E lo è stato anche per Parker per via dell’Intkobergate. Molti illustratori hanno boicottato la lista ufficiale. Io con la compagnia dell’inchiostro ho deciso semplicemente di seguirne un’altra. Per poi stare a vedere.

È nato Wax Museum. Così all’improvviso, senza che niente fosse studiato. Sono molto legata a Max Museum; un progetto che è solo cominciato.

1 – SPOOKED

Dora attraversò lesta Piazzetta Reale e girò verso la Cattedrale di San Giovanni Battista per proseguire dritta verso la Porta Palatina. Canticchiava un motivetto che le era rimasto impresso in mente, ma non ricordava dove. Il cappotto era abbottonato stretto in vita e il fiocco annodato e inamidato non si era ancora sgualcito. Lo controllava specchiandosi nelle vetrine che incontrava. All’angolo di via Porta Palatina il caffè “Stefan” era già aperto. “Strano”, pensò, visto che prima delle dieci era sempre serrato. Fuori un signore distinto e con dei baffi attorcigliati la scrutava da sotto gli occhialini con i vetri azzurri, mentre allungava piccole porzioni di cornetto a un bassotto a pelo ruvido. Dora fu tentata di prendere una tazza di tè. Faceva freddo, era affamata e dentro la piccola borsa di seta non era riuscita a infilare neanche due caramelle alla violetta o qualche pasta di meliga di cui era ghiotta. Non ne era poi così tanto sicura. Doveva controllare meglio, ma non era il caso di tardare e proseguì.

Sorrise al signore che non ricambiò ma in compenso il bassotto si scaraventò sopra i suoi piedi in cerca di coccole. Prima che riuscisse ad accarezzarlo fu bruscamente tirato a sé dall’antipatico signore e così ebbe la scusa per accelerare il passo.

“Avrei dovuto infilarmi in borsa quell’adorabile cagnetto e non lasciarlo a quello lì”, pensò.

C’era una gran confusione girato l’angolo di via Pietro Egidi. Le bancarelle erano quasi pronte, il materiale negli scatoloni veniva estratto velocemente per essere esposto e l’odore della frutta si sentiva prepotente. Poco distante, al Balon, un vecchietto portava goffamente un enorme lampadario tutto sgangherato con dei cristalli rotti da una parte. Era un via vai di persone, carretti e ruote. Alcune signore avevano le buste in mano con della verdura. Non avevano dato neanche il tempo ai venditori di sistemare la merce sui banchi, che già correvano verso casa.

Si sentiva odore di cannella, zenzero e pollo crudo macinato. Accelerò il passo per non essere d’intralcio, sognando di agguantare una mela e divorarla.

Dora si fermò vicino alla via della Fermata 241, dove c’era quell’ultimo treno parcheggiato diventato un ristorante rinomato che guarda verso Ponte Mosca. Prima di arrivarci aveva notato quell’adorabile negozietto vintage, Lidia’s, con le bow window ricche di mensole a vetro ricoperte di cammei, orecchini, bracciali a doppio strato e una vastissima varietà di spille a forma di insetto. Erano più le farfalle che gli scarabei. Enormi formiche di lapislazzuli facevano capolino dalla seconda mensola a destra. Erano stupende ma soprattutto perfette su quel soprabito color cobalto che amava tanto. Magari più tardi sarebbe potuta tornare per provarne qualcuna.

Fissò la Dora e sorrise, pensando che il suo nome venisse proprio da quella corrente d’acqua. Estrasse la busta cercando per un po’ nel disordine della borsa e trovò pure qualche pasta di meliga. Pensò di mangiarne alcune ma prima voleva controllare nuovamente quel misterioso invito che non l’aveva fatta dormire per un po’ di notti.

“Madame Dora Rosin è invitata al Wax Museum il giorno 1 Ottobre alle ore 08:30 per questioni assai importanti. Bussi dodici volte, prego. Firmato le Duchesse Wax”.

Aveva ricevuto questa misteriosa busta qualche giorno prima, rincasando. Aveva trascorso il pomeriggio a leggere in Piazza San Carlo, in un punto che permetteva di ammirare la Chiesa di Santa Cristina in modo perfetto. Tagliando dal pezzo di Via Roma che arriva a Piazza CLN era rincasata. La casa di suo nonno, Emanuele Rosin, era proprio lì, quasi attaccata alla Chiesa di San Carlo Borromeo, adiacente a Santa Cristina. Nel cuore nevralgico della meravigliosa Torino, Dora abitava l’immensa dimora ormai abbandonata. Era venuta da Londra, sua città natale, a trascorrere qualche settimana per sistemare delle questioni burocratiche. Non voleva vendere la casa del nonno e neanche i possedimenti che le erano stati lasciati in quanto unica erede dei Rosin. Aveva bisogno di sistemare delle cose approfittandone per una vacanza a Torino, che tanto amava e dove aveva trascorso gran parte della sua infanzia. L’invito non le era stato consegnato dalla portinaia del palazzo Rosin che controllava ogni angolo del luogo. Aveva  trovato la busta sotto la porta d’ingresso dell’ala in cui stava abitando. La cosa l’aveva incuriosita ma anche inquietata. L’aveva riletto più volte e non capiva il perché di quell’invito ma sapeva bene di dover andare. I Wax erano conosciuti ovunque. Proprietari del Museo più grande, sfarzoso e incredibile di tutta Torino, possedevano diverse proprietà anche in Inghilterra, America e Italia.

Il Wax Museum si trovava nell’omonima via in un groviglio di stradine ben lontane dall’ordine maniacale e decumanico di Torino, sempre precisa, regolare e a scacchiera.

Oltrepassando il Bionda’s, un piccolo alimentari alla vecchia maniera che tagliava la mortadella romagnola sottile sottile come una volta e cuoceva degli ottimi tortellini in brodo, cominciava una piccola discesa costeggiata da tanti lampioni. Alla fine di questa la strada si interrompeva e un grande portone di legno massiccio si ergeva nella sua incredibile maestosità.

Il portone del Museo, lo sapevano tutti, era la replica del Portone del Diavolo di via Alfieri, nel palazzo Levaldigi fatto erigere da Gianbattista Truchi Levaldigi, che ogni torinese, e non solo, conosce. Alcuni sostenevano altresì che in realtà l’originale fosse proprio quello. Solo che al posto del batacchio non vi era la testa del diavolo ma la grande W dello stemma nobiliare dei Wax; quella stessa W si prolungava verso il cielo con due corni che richiamavano il Toro e Torino tutta. Incastonate tra le lettere due piccole pupille inferocite: due smeraldi di inestimabile valore come due occhi capaci di spiare qualsiasi cosa.

Vicino alla colonna sul muro adiacente si arrampicava un po’ di edera che quasi copriva il cartello con gli orari di apertura e chiusura.

Da Lunedì a Venerdì 09:00-21:00 orario continuato

Sabato 07:00-00:00 orario continuato

Domenica 10:00-00:00 orario continuato

Alcune lettere erano sbiadite ma il vetro del cartello era tirato a lucido e dal bordo color oro.

Erano le otto in punto del mattino di Giovedì primo di Ottobre. Dora un po’ tremava ma non capiva se fosse solo il freddo. Teneva saldamente l’ombrello nella mano destra, che non tardò ad aprire quando improvvisamente un tuono la spaventò.

Cominciò a piovere.

2 PATCHED

Non c’era nessuno in strada e neanche davanti al portone. Dora era stranita e si guardava intorno certa che qualcosa di bizzarro stesse per accadere.

Pare che il Wax Museum fosse uno dei musei più strampalati al mondo. Un piano era completamente dedicato alle cere, mentre un altro a bambole di porcellana e giocattoli del passato. Un altro ancora era una piccola divisione del Museo Egizio dove risiedevano pezzi pregiati mai esposti nel museo ufficiale. Il Duca Wax, capostipite della famiglia e amico di Emanuele Rosin, aveva acquistato oggetti appartenuti a stirpi di Faraoni grazie al suo inesauribile portafoglio, anche di conoscenze, e non aveva mai concesso a nessun pezzo di uscire da lì.

Era un enorme palazzo di dodici piani, di cui solo sei visibili da terra che nascondevano sotterranei mai aperti al pubblico. Aleggiavano infinite leggende sul Wax Museum e le due uniche proprietarie, Madame Castagna Wax e Madame Gianduja Wax, non erano certamente avvezze a socializzare più del mero necessario. Dopo la scomparsa dell’amatissima sorella Nocciola Wax si erano chiuse nel riserbo più totale ed erano davvero rare le occasioni, se non strettamente collegate a opere benefiche in relazione al Museo, in cui comparivano.

Dora con le mani leggermente sudate dall’emozione mista a paura si avvicinò al batacchio e cominciò a dare dodici colpi. Tum. Tum. Tum. Tum. Tum…

Non arrivò al sesto che la porta si aprì.

La porta si muoveva lentamente e rumorosamente. Sembrava aprirsi da sola senza che nessuna la tirasse mentre una figura era in piedi immobile a fissarla davanti a lei. Se c’era qualcuno era di sicuro dietro l’enorme portone e lo tirava con sforzo immane. Fece qualche passo in avanti e vide meglio la figura che le si parava davanti.

Era un uomo con una capigliatura molto folta e scompigliata. Teneva nella mano sinistra una candela accesa mentre con la sinistra sembrava che la indicasse.

“Bu..bu….buongiorno”, riuscì a dire balbettando Dora.

Silenzio.

“Po….ssso?”, continuò.

Silenzio.

“Sono Dora Rosin e ho ricevuto l’invito da parte delle Duchesse Wax il primo Ottobre alle ore ….” tutto d’un fiato.

“Biglietto”, disse freddo e scortese l’uomo che indossava una giacca a quadretti, una camicia bianca ben stirata e una cravatta troppo corta per la sua altezza. Sembrava quasi che arrivasse al lampadario che poco dietro illuminava l’entrata e dava accesso alle scale sfarzose di marmo bianco.

Le scale erano ricoperte, solo nella parte centrale, da un velluto nero apparentemente mai calpestato.

“Mi scusi ma non ho il biglietto perché…..l’invito…ecco io ho credo un invito” disse timidamente confusa Dora.

“Mi segua”, rispose glaciale sotto quei baffoni voluminosi che finivano con delle punte fisse e rigide all’ingiù.

L’uomo si diresse lentamente, mentre Dora lo seguiva, verso una stanzetta buia e disordinata con tanti libri, una macchina da scrivere e un vassoio dorato pieno di baci di dama. La fissava e non toglieva lo sguardo dai suoi occhi, poi sbuffò.

“C’è qualche problema?”, disse gentilmente Dora con voce tenera ma per risposta ottenne un’occhiataccia. Una sola, perché in effetti non aveva notato che l’uomo indossasse una benda. Era rimasta colpita dall’altezza, dalla candela, dal volume dei capelli e dai baffi ma non aveva fatto caso a quel particolare. Era una benda come quella dei pirati, tutta nera in pelle con il cordino intrecciato.

Da un cassetto estrasse una specie di interfono.

“È qui”, disse alla svelta sempre fissandola con sdegno.

Dall’altra parte il silenzio.

Poi all’improvviso si abbassò verso Dora e con una smorfia disse “Il cappotto. Mi dia il cappotto”.  L’altro occhio, quello visibile, roteava compiendo un girotondo intorno al bianco. Girava lentamente e in modo ipnotico. Era di un color verde vivido e intenso come i broccoli appena raccolti. Dora abbozzò un sorriso terrorizzato e si fece scivolare lentamente il cappotto fino a tenerlo sopra il braccio.

Iaia
Iaia
Grazia Giulia Guardo, ma iaia è più semplice, è nata il 12 12 alle 12. Il suo nome e cognome è formato da 12 lettere ed è la dodicesima nipote. Per quanto incredibile possa sembrare è proprio così. Sicula -di Catania- vive guardando l’Etna fumante e le onde del mare. Per passione disegna, scrive, fotografa, cucina e crea mondi sorseggiando il tè. Per lavoro invece fa l’imprenditrice. Digitale? No. Vende luce, costruisce e distrugge. Ha scritto un libro per Mondadori, articoli per riviste e testate e delira pure su Runlovers, la comunità di Running più famosa d’Italia; perché quando riesce nel tempo libero ama fare pure 12 chilometri. Ha una sua rivista di Cucina, Mag-azine, che è diventato un free press online. È mamma di Koi e Kiki, un labrador color sole e uno color buio, mangia veg da vent’anni, appassionata di cinema orientale e horror trascorre la sua giornata rincorrendo il tempo e moltiplicandolo.

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