Ho avuto un attacco di ira violenta quando ho perso questo post. L’ho scritto per più di un’ora come in trance; ovvero come mi accade non poche volte. Poi un problema di wordpress che resetta automaticamente e talvolta non conserva i vari step come dovrebbe nonostante avessi premuto salva ogni quindici secondi come mia abitudine e il: nero. Il vuoto. Ho spaccato una tastiera e un mouse. Con quella preoccupante calma che spaventa. Ho semplicemente preso la tastiera e lanciata come un frisbee con violenza verso il basso e non ad altezza visiva e via. Tutti i tasti sono volati. Con le batterie. Con le lacrime. Con le parole perse. Con gli agganci.
Sono rimasta vuota, senza ricordi e con pezzi di lettere ai piedi. Ho perso la ragione, come ultimamente accade spesso in eccessi di ira e dolori che vengono trattenuti nel tempo per poi sfociare così. In una freddezza delirante dove tutto è mio. Posso distruggerlo perché mi appartiene. E nessuno deve avvicinarsi. Questo mi fa maggiormente comprendere per ironia della sorte proprio perché io mi senta molto vicina a Jack, all’idea che mi sono fatta negli anni del messaggio di Kubrick e King e proprio perché pur non avendo mai avuto eroi, tranne che mio padre, e miti io mi ritrovi qui come una bimbetta di quindici anni a “dedicare” una ricetta al mio beniamino che nella realtà della mia esistenza poco importa se sia nato e cresciuto davvero nel pianeta terra. E’ semplicemente un’idea. Di quelle fluttuanti e con un corpo che albergano nell’iperuranio. Mi sono immaginata più volte cosa dovesse mai accadere e che tipo di comportamento potrei assumere se morisse Jack. Ho sofferto per Lucio Dalla, in quanto voce della canzone di me e papà e ho frignato come una bimbetta nel ricordo di Patrick Swayze perché anche lui non poteva essere messo in un angolo, proprio come Babe, da un tumore fulminante. Dopo che aveva sconfitto fantasmi, macarene e il duro del Road House. Jack fa parte di me (Torrance soprattutto) proprio perché l’ho identificato nella mia parte maschile. Molto sintetico, a tratti delirante e molto meglio comprensibile in quello che avevo scritto prima. Solo che adesso non c’è più. E’ lì per terra con i tasti spezzati della mia tastiera. Domani dovrò comprarne un’altra ed è il mio unico pensiero, mentre afferro un altro computer. Conscia del fatto che potrei perdere anche questo. Spaccare anche questo. Prenderne un altro e andare avanti così per quanto? Per giorni. Assicuro per giorni.
Shining che sia per scritto, visto da King o da Kubrick è forse l’unica mia ossessione visiva. Sì anche Twin Peaks ed è per questo che non smetto di amarlo e di averne paura e di riguardarlo e di indagare e di estrapolare il mostro del cibo che lo contiene ma semmai dovessi essere messa davanti alla scelta del mio ultimo film ho pochi dubbi a riguardo. Shining. Ho spaccato telefoni e tastiere per molto meno ma mai con questa veemenza e dolore. Perché perdere dei pensieri che mi riguardano e soprattutto visti attraverso i miei occhi e gli specchi dell’Overlook Hotel è una morte. Di quelle importanti che lacerano. Perché attraverso determinati scritti capisco e indago. Soffro e guarisco per poi ammalarmi di nuovo in questa tarantella del dolore. Non serve poi rileggersi, perché non lo faccio e ne ho paura talvolta, ma già farlo. Scrivere. E’ uno sfogo. Lo faccio proprio nel giorno dell’attesa del risultato della tac di papà quando i nervi sono esplosi al massimo da mattina a sera. Quando l’isolamento dal cuore trafitto da spille e aghi e sangue e frattaglie, non serve a nulla. Perché non vi è mai un vero muro così forte da non far passare il buio e l’abisso del dolore. So che quando ho visto questa polaroid molto probabilmente scattata dalla figlia di Kubrick durante le riprese mi sono sentita quasi in dovere di star lì a sorridere. Come un ebete. A indagare se Jack stesse pucciando nel burro di arachidi quegli Oreo ben visibili. Mi fa stare bene scoprire. Indagare e percepire. A sinistra della prima polaroid in alto c’è proprio Kubrick. Si vede la barba e il braccio ma non che mangia l’Oreo. Nello sguardo di Jack, infantile ed entusiasta con le labbra come se rinforzasse il concetto di marachella che si accinge a fare, diventa tutto più semplice. Quasi più facile. Quando mi rifugio nelle mie fissazioni, ossessioni, perversioni visive e paure trovo conforto. E’ per questo che nei periodi orrendi preferisco rispolverare qualche Horror perché proprio delle principesse non ho voglia. Per masochismo acuisco il dolore per poi sentirne meno dopo. Adesso vorrei solo trovare le mie parole. Quelle che sono buttate ai miei piedi tra i tasti rotti. E spaccati. Quelle che mi hanno rubato. Che non ritroverò. Insieme ai parallelismi che avevo fatto con Scream parlando di pop corn scoppiati.
Insieme alla mia nenia sulla dispensa dove Jack è sdraiato. Sì perché a ben guardare Jack è proprio nella dispensa, un luogo protagonista di Shining. Viene più volte inquadrata e compare in determinate sequenze clou. A partire da Danny e l’incontro con quella parola che ne determinerà la consapevolezza: la luccicanza. Sono proprio sdraiati lì nella dispensa tra un ciak e l’altro. E chissà di cosa discutono e come si guardano, mi dico. Mentre ricordo Jack venir giù dal tetto nelle pagine del libro di King, scena presente nella miniserie televisiva. E di quell’aggiustamento di tegole e tetti in Kubrick neanche un po’. Saper raccontare e scrivere una storia dentro la storia. Rileggerla con chiavi sempre diverse che portano a una stessa strada. Percorribile a seconda di pazzi segnali. Una volta l’obbligo a destra e poi a sinistra. E ritrovarsi sempre in quel punto.
A senso unico. A unico senso anche se è alternato.
A differenza di quanto si possa pensare nelle visioni horror, tanto quanto nei cartoon, vi è moltissimo cibo “non buttato a caso” ma a ragione. Lo constatavo proprio durante una delle scene clou di American Horror Story, che con maestria e poesia fa proprio dimenticare il fatto che sia classificata come serie televisiva. Perché tutto sembra tranne che questo. Appare piuttosto come una grande interpretazione cinematografica. Soprattutto quando vi è quell’inquadratura dall’alto. Sembra quasi un fisheye non troppo esasperato. Che fa sussultare la mia pupilla in una pelle d’oca continua. Incosciamente mi sono resa conto che i pop corn in una delle scene cult di Scream diventano simbolo di parallelismi inconsci. Allo stesso modo accade con i tortini di carne. Con il lecca lecca di Audrey che diventa simbolo di efferati omicidi e segreti perversi. Sul libro ho sintetizzato in tre parole con le patatine fritte e il ketchup fatto in casa. I due alimenti preferiti di Danny insieme al gelato. Era troppo facile e semplice il richiamo del ketchup al sangue. Era troppo difficile e complicato scrivere quello che davvero per me rappresenta l’Overlook Hotel e l’immagine di me traslata a quella di Jack. E intendo sempre Torrance e non Nicholson.
Per rilassarmi e perdonarmi di questa perdita. Di parole e tasti. Sono rimasta lì a fissare Kubrick e la famiglia. Attraverso l’immagine sfocata di Jack e l’esasperazione del giallo. Ho provato a immaginare cosa provi e se si possa provare qualcosa quando in quell’abbraccio c’è un fantasma e non più. E non più.
Lui.
E una paura. Un terrore e un fato ha fatto sì che perdessi le parole quasi a volermi tutelare. In un gioco di sinistro di paure, angosce e perdite. Questa torta oreo non l’ho copiata da nessuna parte. Ho buttato gli ingredienti dentro il bimby, ma si può fare con qualsiasi strumento ed è quindi stupido ribadirlo ma lo faccio. Ho appuntato la grammatura perché speravo venisse buona. Speravo di poterla replicare e dire che era mia. Come il mio dolore. Come le parole perse.
Mi è stato detto che è buona. E chi me l’ha detto non mi mente. Quindi semmai voleste provarla e dirmi il vostro parere sarebbe un regalo e un pensiero gradito.
Il mio omaggio a te Jack.
- 125 grammi di philadelphia
- 250 grammi di biscotti oreo
- 150 grammi di burro (100 di burro e 50 di burro di arachidi in alternativa)
- 3 uova
- 30 grammi di cacao amaro in polvere
- 120 grammi di zucchero semolato
- 150 grammi di cioccolato fondente al 70%
- 1/2 cucchiaino di lievito
Io ho frullato senza un ordine preciso tutto nel Bimby. Non bisogna chiaramente possederlo. Basterà frullare con un comunissimo frullatore i biscotti oreo (con tutto il ripieno, sì) e il cioccolato fondente e poi unire ingredienti secchi e liquidi aiutandosi con uno sbattitore elettrico o quello che si ha a disposizione. Un frullatore piuttosto “potente” potrebbe ugualmente svolgere la stessa funzione; allo stesso modo un’impastatrice per amalgamare il tutto. Allo stesso modo pure olio di gomito, sacchetto di plastica e violenza inaudita con mattarello. Insomma. Gli ingredienti non necessitano di chissà quale elaborazione. E’ importante che tutto si amalgami e diventi cremoso, compatto e liscio.
In una teglia imburrata per bene si versa il composto ottenuto e si infila in forno a 180 per 40-45 minuti. Dipende dalla grandezza della teglia che adoperi. Io per testardaggine pur sapendo di sbagliare ne ho adoperato una troppo piccolina e quindi l’impasto è diventato eccessivamente alto e apparentemente umidiccio (poi è risultato perfetto, fortunatamente).