Non ho voluto leggere molto riguardo l’attesissimo ritorno di Twin Peaks. Giusto i titoloni, parole sfuggenti su bacheche, social e quelle cose lì. Ho visto il trailer con il mio amato Lynch che mangia ciambelle e le ho preparate in suo onore. Poi, con calma, mi sono commossa al primo trailer ufficiale; che non mi ha stupito perché “diceva poco”, anche perché chi si aspettava che avrebbe detto di più credo non conosca Lynch davvero. Sapere di più, il dettaglio servito con il cucchiaino e lo spiegone dettagliato praticamente sarebbe un’offesa, del resto. Quando ho visto Sarah Palmer tirare il carrello tra gli scaffali con il suo sguardo perennemente perso nel vuoto ho capito quanto fossi realmente invecchiata. Anche io. Con loro. Ho sempre rispettato i miei ricordi e oggi voglio farlo anche con i loro.
Voglio rispettarli, questi ricordi. Ti confesso che mai mi sono chiesta se nel futuro sarei stata migliore, l’ho sperato (e lo spero) e ci ho lavorato (e ci lavoro) certo, ma non ne ho mai avuto -e non ne ho- certezza, ergo non me lo domando. Ci lavoro. Credo più nella forza e nell’impegno che nell’interrogativo e nel dubbio. Mi fa paura l’attesa e il giudizio di chi riesce solo a criticare, vivisezionare e distruggere condendo tutto di considerazioni, supposizioni e speranze che poi saranno magari disilluse. Sarà che l’argomento tocca un nervo scoperto perché chiunque non riconosca il genio di Lynch -capisco che è infantile da parte mia- è come se automaticamente venisse espulso dalla mia mente in quel girone dell’inferno con la moquette del’One Eyed Jack’s. Ho letto titoloni con ripassi dei personaggi, test per capire se sei davvero un Twin Peaks addicted, domandone del tipo “ci deluderà?” e via discorrendo in un infinito di nulla. Capisco che qualcuno debba portare a casa la pagnotta e quindi tra balene blu, notizie di dubbio gusto e bodyshaming su piedi e star ingrassate o dimagrite il titolo su Lynch faccia cultura cinematografica. Ma la domanda che prepotentemente mi sono posta in questi mesi d’attesa è stata: perché non aspettare semplicemente? Lynch è a dir poco imprevedibile e disarmante. Riassumendo: di che stiamo parlando se non di aria fritta? Aspettare, guardare e decidere.
Eppure io sono tutto fuorché una persona logica, quindi la maggior parte sarebbe dovuta arrivare prima di me, no? Mi è capitato di leggere anche chi in questi anni non ha mai avuto il bisogno di rivedere Twin Peaks, ma sapendo che ci sarebbe stato un seguito ha provveduto. Per rendersi conto che era diverso da quello che si ricordava. Che è lento. Che è a tratti noioso. Insomma che il ricordo avesse superato la presunta oggettività noiosa del prodotto. Ecco io rimango esterrefatta davanti a tutto questo perché non riesco seriamente a comprendere quale sia la difficoltà nell’ammettere che un prodotto del genere all’epoca si è visto e apprezzato semplicemente: per moda. Perché andava fatto. Perché era proibito. Perché era figo. E una serie di perché.
In questi venti anni l’ho visto diverse volte. Come ho visto diverse volte i film di Lynch che non riescono mai a essere comprensibili con una visione soltanto. A volte neanche dopo quattro. A volte mai e io lo spero sempre. E ogni volta che ho visto Twin Peaks è stato diverso e anche adesso è stato diverso ancora. Ma ogni volta ho avuto la certezza che non lo stessi vedendo perché dovevo farlo ma perché lo volevo. Perché mi ha segnato, è diventato musa e ha caratterizzato anche diverse parti di me e delle mie visioni. Per questo lo amo, ne sono gelosa e mi arrabbio se qualcuno tratta un amico, perché questo è, con superficialità. Da un amico non ti aspetti che migliori dopo venti anni. Da un amico non ti aspetti nulla, se è veramente un amico che hai scelto e che hai voluto accanto. Impari a capirne i difetti e ci saranno sempre delle cose che non ti piaceranno e ti infastidiranno ma gliele perdonerai. Sei sei costretto a esserci amico per opportunismo, insicurezza, varie ed eventuali allora sì che possiamo fare i sapientoni urlando: lo faccio meglio io, lo dico meglio io.
E sì, un amico come Twin Peaks lo difendo a spada tratta eccome. Perché lo conosco.
Non ci credo ancora che sia passato un quarto di secolo. Ero in una panda 750 color carta da zucchero con interni in tessuto tartan dai toni dell’azzurro. Il finestrino abbassato come sempre, perché mamma è claustrofobica e poi lo sarei diventata anche io, e quell’eccitazione incontrollabile di sentirmi grande. Mamma nella Libreria Italia, a Barriera del Bosco esattamente, mi avrebbe comprato il Diario di Laura Palmer. Nessuna delle mie amiche poteva averlo ma io sì. Io sì perché la regola numero uno di papà e mamma era: fidarsi sempre reciprocamente. Mi avevano chiesto se a parer mio fosse il caso che io lo leggessi. Con una notevole incertezza avevo detto di sì. Era assolutamente il caso che io leggessi. Avevo già visto diversi film d’orrore alle elementari e per quanto discutibile questo possa sembrare agli occhi di molti genitori bigotti, che adesso magari lasciano navigare i propri figli su Youtube ignari che un video haul può essere più agghiacciante di Poltergeist, mi hanno aperto la mente. Mi hanno resa libera visivamente e non indottrinata. Mi hanno distaccato completamente dai gusti visivi dei miei genitori e questi ultimi hanno permesso che la mia personalità venisse fuori senza troppe influenze. Avevo già capito allora che Lynch non era orrore. E se lo era apparteneva a una sfera completamente diversa.
Avevo già letto IT, che mi aveva inquietato ma reso felice, e diversi racconti di Lovecraft, King, Poe e Christie. Ero già fortemente sicura che un vero e proprio genere non esistesse se non strettamente correlato all’autore, ergo non “genere horror”, “genere thriller”, “genere giallo” ma “genere Lynch”, “genere Christie”, “genere Lovecraft”. Genitori di un genere e non partecipanti.
Del diario di Laura Palmer -che non ho più riletto- come il diario di Jack Lo Squartatore -che non ho più riletto- conservo un ricordo apparentemente vivido. A differenza della serie non ho voluto riaprirne le pagine perché credo che coscientemente, anche se in giovane età, mi fossi convinta che fosse semplicemente una trovata pubblicitaria. In quel momento aveva un valore, diciamo così. E ho preferito preservare quel valore per inscatolare tutte quelle angosce che diventando adulte avrebbero potuto diventare sciocchezze. Quello che faccio fatica a spiegare è proprio questa mia voglia di preservare. Non sono una persona accessibile, a dirti la verità. Nonostante la mia libertà e apertura, che a volte sconcerta, non riesco a essere facilmente avvicinabile dall’arte, dalle visioni, dalla musica e dalla bellezza in genere. In queste cose divento fiscale, maniacale e per certi versi monotematica. Non sono una che si innamora facilmente, a cui piace una cosa banalmente, che si affeziona inspiegabilmente. Non riesco a vedere tutte le serie tv, tutti i film, tutti i generi, ascoltare tanta musica, scoprire troppe cose. Come do valore ai miei ricordi che diventano amici lo do anche al mio tempo. Mi piace solo la musica classica strumentale e qualcosa di orientale. A meno che non sia disco anni 80 con cui scatenarsi e fare baldoria fingendo di scendere giù sott’acqua con il naso tappato o Barry White, non muovo neanche il piedino. Se non è un prodotto visivo che ai miei occhi è di altissimo contenuto semplicemente non lo vedo.
Lynch non è per tutti e bisogna farsene solo una ragione
Nel mio studio ho disegnato i ritratti dei miei registi preferiti. Quelli che venero insomma senza vergognarmi più di tanto. Sono sette e nell’ordine di apparizione in cornice sono: Kubrick, Kim Ki Duk, Lynch, Miyazaki, Burton, Kitano e Hitchcock. Potrei stare ore qui a ticchettare del nulla ma voglio concentrarmi su questa affermazione che non vuole essere assolutamente “snob” o di quella che vuole darsi un tono. Che tono dovrei darmi? Non sono nessuno. Ma Lynch è amico mio, per quanto stupido e insensato possa sembrare agli occhi di qualcuno. E oggi parlo di un amico, tutto qui. Non si può essere amico di qualcuno volendolo cambiare e partirei da questo. Nella mia vita sono sempre passata per quella particolarmente “strana” e ho incontrato -e incontro- diverse persone che vogliono starmi accanto ma ci tengono sempre a sottolineare che se non avessi determinati “difetti” o atteggiamenti “bizzarri” sarei “perfetta”. Se solo fossi più presente, se solo rispondessi al telefono, se solo uscissi di più, se solo. Un po’ come dire a Lynch che se fosse più comprensibile, più veloce, meno enigmatico. Beh. Non sarei più io. Non sarebbe più Lynch.
Amo le persone sfuggenti e Lynch lo è. Perché riescono a dare di più senza false promesse. Questa caratteristica che può essere compresa, a mio modesto giudizio, solo dai più forti e non dai deboli che hanno bisogno di continue certezze è qualcosa che conquista o distrugge. Non si può afferrare una mente libera, un’anima in continua ricerca e tormento. Perché semplicemente non potrebbe regalarti quello che ti piace di più.
Analizzare quella che è una caratteristica e che con molta probabilità ti ha proprio incuriosito e fatto avvicinare è una forma di debolezza e arroganza. Accettare, capire, avvicinarsi è una forma di suprema intelligenza. Anche allontanarsi, anzi ancora di più. Capire che una persona/un regista/un amico/un pittore/varie ed eventuali è incomprensibile non significa che lo sia. Ma che lo sia per te. E la concentrazione del te non è la perfezione. Non si è mai dalla parte giusta o sbagliata, salvo rari casi, ma si è da una parte piuttosto che da un’altra. Se hai la sicurezza di aver capito Mulholland Drive, come anche il monolite nello spazio, forse c’è un problema alla base.
Lynch, come la meditazione e l’introspezione, ti apre la mente. Se la vuoi aprire, certo. Non ti confeziona una storia con un personaggio, una trama, della musica, un inizio e una fine. O perlomeno lo fa anche. Solo che te la racconta nel suo modo di vedere le cose e bisogna sempre rispettare le cose viste da diverse angolazioni. Anche perché diciamolo nessuno ti costringe a fare altrettanto. Credo sia una questione di allineamenti e affinità. Non ho mai avuto la sensazione di aver capito davvero Mulholland Drive, Velluto Blu, Twin Peaks e altro. Ma la sensazione che mi sia piaciuto tanto quello che ho capito, sì, è stata bellissima e profonda e per questo sono grata a Lynch.
Adesso devo calmarmi e bloccarmi però altrimenti continuo a ticchettare freneticamente per giorni ed esplode il server. Ci sarà come sempre occasione, purtroppo per l’umanità, di riprendere il discorso. Questo perché teoricamente ero qui per fare diverse e poche, promesso, considerazioni sul rapporto che Lynch ha con il cibo nelle sue visioni. Non che l’argomento possa essere affrontato, anche questo, in modo sintetico ma da qualche parte insomma devo cominciare. Mettere punti e cominciare. E ricominciare.
Lynch e il cibo
Vorrei analizzare la correlazione del cibo solo su Twin Peaks, al momento. Lo avevo già fatto diversi anni fa quando prima del mio Libro “Le fumettoricette” stavo lavorando a un mio personalissimo progetto -già finito e mai pubblicato- che aveva proprio questo come tema: la correlazione tra il cibo e diversi film, manco a dirlo che mi avevano colpito e che avevano segnato il mio percorso visivo. Sul libro delle Fumettoricette ho chiaramente dedicato una ricetta ed è quella che vedi oggi, la Cherry Pie chiaramente. Eppure di cibo su Twin Peaks ce ne è così tanto da far girare la testa. Ho letto diverse interviste di Lynch. Il mio amato David ha un rapporto molto difficoltoso con gli odori, tanto da reputare la cucina in attività un vero e proprio inferno. Vorrebbe che la cucina fosse in una parte separata della casa e che gli odori non interferissero nella sua vita. Come una fobia, insomma. L’unico odore che lo tranquillizza e che lo rende felice è quello del caffè. Nero e bollente. Lynch ama così tanto il caffè tanto da averne avviato una produzione. Ha sviluppato un vero e proprio marchio con una miscela proveniente dal Messico e dal Sud America.
Il caffè promuove la felicità
Questo ha asserito Lynch ed è per questo che un tempo ne beveva ben venti al giorno, poi fortunatamente ha smesso anche se sagacemente e sarcasticamente ammette che fossero tazzine piccole italiane. Di lui so che ama i cupcake e i donut. Che ama il cibo italiano e che mangia sette mandorle al giorno. Se gli si chiede perché risponde che il sette gli sembra un numero giusto. Fondamentalmente perché gli piace il sette. La felicità anche attraverso la meditazione trascendentale, che promuove più di chiunque altro, e sostiene essere il vero universo della creatività. Ecco io è difficile che mi riveda in qualcuno ma posso sostenere che Lynch sia in assoluto un’anima affine. Diventa riconoscibile nel mio iperuranio. Di lui so che, come me, ama molto chiacchierare e raccontare. Ama raccontare anche parti di sé. Ama sorridere, essere conviviale e gentile per poi tenere saldamente in serbo una maniacale riservatezza. Sembra una sciocchezza ma questo atteggiamento atipico molte volte stordisce e diventa incomprensibile per alcuni. E quegli alcuni hanno una sorta di rigidità mentale che, ahimé, non gli consente di oltrepassare i varchi mentali. Per questo motivo Lynch propone e consiglia -fondando una vera e propria associazione- la meditazione trascendentale.
Uscire da se stessi per ritrovare se stessi
Lynch è un pittore ed è riuscito a spiegare attraverso l’inspiegabile le cose più spiegabili e ovvie, per certi versi. Mi viene in mente una delle scene più belle di Twin Peaks, quando nelle carceri dell’ufficio dello sceriffo Leland si libera del male.
“Tra poco la tua anima verrò sommersa da una luce splendente e tu conoscerai una nuova e definitiva realtà. Dove tutto è come un cielo vuoto senza nuvole. In cui l’intelletto è senza confine e senza centro. Rimarrai così in eterno”, questo dice Cooper -per certi versi trasmigrazione caratteriale di Lynch stesso- a Leland dopo aver gettato fuori il male e l’inconfessabile fracassandosi il cranio su una porta di ferro. Riesce a essere educativo e sempre positivo Lynch, nel mio modo di vedere. Filosofico e legato moltissimo al parallelo e all’iperuranio non parla solo di un omicidio e un assassino. Questo è chiaro e lapalissiano, nonostante qualcuno ancora si ostini a credere che sia un horror, un giallo, un thriller come scrivevo poco più su. Non è niente e tutto questo. Il fatto che nessuno creda che Leland sia capace di tale gesto. Il fatto che ne sia totalmente discolpato ai danni di Bob che nella realtà fisica delle cose non esiste dimostra quanto Twin Peaks voglia in modo prepotente discostarsi da tutto quello che è facile analizzare, capire e vedere. Si va in un’altra dimensione dove i messaggi del gigante, del nano, del vecchio e della signora con il ceppo siano comprensibili. E se stai cercando qualcosa di razionale, comprensibile e a tratti ovvio ritorniamo al punto uno.
Lynch non ha un cucchiaino in mano per imboccarti
Lynch ti consegna un piatto complicato con ingredienti difficili da reperire e a ogni assaggio sei tu che devi sentirne l’odore, il gusto e la consistenza. Un percorso visivo, gustativo e olfattivo. Come ti dicevo c’è tanto di quel cibo che ti gira la testa. Si mangia sempre e continuamente. Con i pasti a domicilio, al bar, alla Road House, al bordello, a casa, quando muore qualcuno, in ufficio, dallo sceriffo, agli incontri, sempre, sempre, sempre. C’è così tanto cibo che gira la testa. Ci sono anche dialoghi allegorici che come protagonista hanno proprio il cibo, come quello del maialino di formaggio affumicato che si mangia al Northern. Tra i trabocchetti, i dialoghi ricchi di riflessioni e collegamenti e non qualunquistici ci sono ragionamenti sospesi e sapori che aleggiano tra frappè al cioccolato, hamburger e formaggi. Ci sono cestini ricolmi di cibo ovunque e colazioni abbondanti in hotel fatte di cupcake, pancake e uova ma anche arrosti e creme. Ci sono creme di mais che scompaiono e riappaiono per confermarti che non è mai come sembra. Ci sono momenti drammatici e paradossali al tempo stesso tanto da diventare assurdi, a tratti comici e criptici. Ci sono grondanti cheeseburger tra confessioni e colpi di scena, ma di quelli lenti che ti colpiscono forte.
Un percorso viene tracciato mettendo ogni singola pietra una dietro l’altra
Il gigante diceva questo. E credo moltissimo nel percorso tracciando ogni pietra singola dietro l’altra. Twin Peaks fondamentalmente è una chiave. Uno strumento che consente a ogni singola persona di tracciare un percorso. Il percorso non ti porta mai alla fine di una strada perché è infinita, proprio come quella che vedeva Leland alla fine del suo percorso fatto di immenso amore e immenso male. Tutto sta nel capire chi intraprende questo percorso. Twin Peaks non può essere un prodotto comprensibile per tutti. Come allora, così sarà. Una persona che ama trovare la strada spianata su cui saltellare, giocare o al massimo spostare qualche pietra distrattamente non può arrivare da nessuna parte. O perlomeno dall’altra parte. Un po’ come chi sostiene che non si può uscire mentalmente dal corpo attraverso il pensiero. Un po’ come chi non crede nella meditazione e nel potere della mente. Da parte mia posso sperare, ma so che un amico come Lynch non mi deluderà a prescindere, che sia ancora il Twin Peaks che ho lasciato. Perché non mi aspetto che sia “modernizzato”, non mi aspetto che abbia quel fastidioso e noioso taglio americano che fa impazzire le generazioni di Tredici e amenità insulse del genere, perché non mi aspetto che ci sia superficialità, qualunquismo e ovvietà. Cose insomma che ho trovato anche nel Trono di spade, dove sì d’accordo c’è della fantasia e creatività infinita ma il genio è un’altra cosa.
Il genio è Lynch.
Mi aspetto che gli alberi parlino, che i ceppi e la natura prepotente interferiscano nei pensieri umani, che il male travolga anche chi non vuole essere sfiorato a riprova che tutti siamo deboli e se vogliamo forti, che ci siano torte e ciambelle come sottofondo a verità crudeli, perché non so se lo ricordi ma proprio le ciambelle donut descrivono come è accaduto l’omicidio nella prima puntata della seconda serie. Ronette sui binari scampata alla morte viene alternata a un morbido e rassicurante donut. Mi aspetto che onde radio e logge nere siano in agguato e che un ispettore faccia indagini con tecniche tibetane, metodi deduttivi, fortuna e magia.
La magia
Perché questo è Lynch. Magia pura. Impatto emotivo tra movimenti lenti e risate da sotto un letto che ti tormentano ancora. Lynch è la parte oscura e lucente della vita. L’allegoria del nano e del gigante. Di quello che può portarti l’altezza e la bassezza. Dei messaggi sinuosi, dei morti che non vanno mai via e ti tormentano, dei vivi che sono meno vivi dei morti e della crudeltà che si può celare dietro una foto in bacheca della reginetta del ballo. La magia di saper perdonare perché questo insegna la storia di Twin Peaks e troppo spesso il messaggio positivo viene dimenticato. La forza e la magia sta nel ricordarselo. Nel continuare a credere che anche mettendo pietre su pietre in un percorso nero, buio e difficile sempre e solo la luce ci accoglierà. Quando è morto papà ho visto Bob voltarsi ridendo e andare via. Ma io, che so parlare con i ceppi, ho capito che non mi ha portato via niente. Perché il fisico non è l’anima e il pensiero. Perché ricordo ancora i cavalli, la biga, il bianco e nero. Perché so contro chi sto lottando. E so che ballerei più forte del nano.
Guardalo con gli occhi disinteressati, con la mente sgombra, con nessun pregiudizio, con nessun paragone, con nessuna idea precisa e avrai come risultato un viaggio impagabile e profondo che nessuno, se non Lynch, poteva genialmente raccontare meglio di così.
Noi ci rivediamo su questi schermi presto perché farò menù a temi Twin Peaks e tantissimo altro. Un bacio grande e grazie per questa chiacchierata, che spero ti sia piaciuta. Davanti a un buon tè bollente e nero senza zucchero e un’ottima cherry pie che potrai facilmente replicare a casa. E che, sono sicura, ti stupirà.
La Cherry Pie
La Ricetta di questa Cherry Pie è tratta dal mio Libro (momento autoreferenziale ai massimi livelli) “Le Ricette di Maghetta Streghetta” edito da Mondadori. La versione di More, quella di Biancaneve, invece la trovi qui.
Ingredienti per una teglia di 28 centimetri circa
- Per la pasta brisèe: 500 grammi di farina 00, 200 grammi di burro morbido a pezzetti, 1 pizzico di sale.
- Per il ripieno: 500 grammi di ciliegie fresche o amarene denocciolate (se usi quelle sotto spirito, sciacquale più volte sotto l’acqua), 200 grammi di marmellata di ciliegie meglio se senza zuccheri aggiunti, 30 grammi di amido, 1 pizzico di sale, 1 cucchiaio di succo di limone e metà della sua scorza grattugiata, 150 grammi di zucchero di canna, 1 cucchiaino di vaniglia in polvere o essenza, 30 grammi di burro a tocchetti e se ti piace anche un po’ di essenza di mandorla che ci sta benissimo.
- Per la copertura finale: 1 uovo e zucchero di canna.
Per comodità spesso adopero l’impastatrice ma il classico metodo manuale di picchiettare il burro con la farina aggiungendo pian piano i 140 grammi di acqua freddissima rimane indiscutibilmente il migliore (se hai tempo). Ricopri sempre e comunque con la pellicola e fai riposare almeno 30 minuti in frigo. Per il ripieno: versa le ciliegie denocciolate, la marmellata, l’amido, lo zucchero, il succo e la scorza di limone e la vaniglia. Gira con cura fino a ottenere un composto omogeneo. Stendi la metà della pasta brisèe tolta dal frigo su un piano infarinato e versaci sopra il ripieno e poi i tocchetti di burro. Stendi la pasta rimasta e ricopri per bene la torta. Se ne hai ancora fai la chiusura, aggiungi decori o qualsiasi cosa la fantasia ti suggerisca. Fai una incisione a x sulla superficie della torta ma non fare fuoriuscire troppo il contenuto. In una ciotolina sbatti un uovo e spennella la superficie. Puoi aggiungerci latte o zucchero così la crosticina verrà ancora più croccante e dura. Inforna a 205 per 15 minuti e poi a 180 per 35-40 sempre tenendola d’occhio. Si accompagna perfettamente a generose cucchiaiate di panna fresca montata sul momento e all’immancabile caffè nero ma pure con una bella pallottola di gelato che visto il periodo male proprio non fa.