Ho parlato spesso di questa torta ma quando in archivio ho cercato il post, perché avrei scommesso di averne fatto almeno venti con trenta versioni differenti (evviva la matematica), non ne ho trovato neanche uno. Fermo restando che wordpress e gikitchen insieme potrebbero stilare un decalogo dei misteri in fatto di archivio e post perché molte sono le ricette non reperibili nonostante sia sicurissima di aver postato (non tanto affidandomi alla mia memoria quanto a quelle di Cri e del nippotorinese), niente. Di un post con questa torta neanche l’ombra. Sicura che la ritroverò proprio quando sarò alla ricerca di gamberoni o capperi, giusto per confermare la randomitudine della cosa (oh! se wordpress può farmi scomparire roba dall’archivio io potrò pure coniare termini orrendi no? Ho sentito tanti “no!” vabbè).
Cercando però in archivio ho trovato questi scatti che risalgono al Novembre del 2010, credo. E sono così meravigliosamente orrende con la loro luce sbagliata e posizione orrenda che non potevo non esporle orgogliosa di cotanta schifezza.
Anche perché la torta è buona davvero e vale la pena condividerla. E’ una di quelle ricette che vorresti tenerti stretta al cuore e non rivelare mai proprio perché è come se contenesse parti di te. Nonostante infatti non abbia trovato un vero e proprio post dedicato, sono molte le sensazioni e le emozioni che ho riservato a questo impasto proprio perché rappresenta l’inizio del mio rapporto con l’infido algido nordico e perché la comunione del riso tipicamente del nord con la cannella caratteristica del sud diventa un po’ il nostro sposalizio. Le mele renette sarebbero state ottime ma purtroppo qui nella terra della sagra del cannolo reperirle viene un attimino difficilissiiiiimo o forse semplicemente il mio Fruttivendolo di Fiducia mi detesta e le tiene tutte per sé (indagherò).
Questa ricetta l’abbiamo scovata quando ancora non abitavamo insieme e vi erano continue trasferte Shanghai-Tokyo-Catania-Rimini-Torino-Francoforte-Londra. Esattamente perché c’era odore di convivenza e fidanzamento e matrimonio (povera illusa) e io, da brava psicopatica in età da marito che ha trovato il pollo, ho cominciato a comprare tonnellate di libri di cucina. Ero felice. Pesavo 140 chili e trotterellavo (si fa per dire) saltellando con pacchi di patatine in mano e litri di coca cola nella fiaschetta manco fossi un San Bernardo (e ben pensarci la razza canina era più leggiadra) felice ed in organizzazione di corredo. Non capendo assolutamente nulla di cucina e sentendomi particolarmente preparata perché sapevo aprire la busta dell’insalata pronta e già lavata, ho creduto che l’edizione tascabile di “Single in cucina” della Mondadori sarebbe stata ottimo per quello che mi occorreva. Una contraddizione in termini me ne rendo conto ma nella mia idea il Single era quello che non sapeva far nulla. L’obiettivo per me, del resto, era capire se davvero la pasta andasse buttata quando l’acqua era calda o se potevo tranquillamente infilare tutto insieme e lanciare sul fuoco senza perdere tempo.
Ticchettando questa frase un brivido di terrore ha percorso la mia colonna vertebrale storta ma è giusto non rinnegare il passato. Questo librettino insomma, inizio e genesi di tutto quello che è avvenuto, è un po’ il mio scheletro nell’armadio. Premesso poi che Mr Bones, il mio scheletro, sta davvero in un armadio ma non dilunghiamoci.
In questa bibbia della velocità c’era pure questo dolcetto. Con sommo raccapriccio il Nippotorinese allora mi mise a conoscenza di ricettari ben più adatti per cominciare ma sfogliando l’incriminato malloppotto di pagine venne fuori questa robina dolcettosa leggera e non troppo grassa come piaceva a lui. Poi qualcuno deve spiegarmi come diavolo potessi piacergli io considerando che “non troppo grassa come piaceva a lui” in una circostanza del genere sembra essere ridicolo anzichenò. E tutta questa frase l’ho scritta perché confesso di amare la parola anzichenò e quando posso ne voglio abusare smisuratamente.
Insommaaaaaaaaa. Sono in ritardo e continuo a delirare. Ma che probema ho? (nessuno risponda! Non c’è tempo neanche per l’interminabile elenco) Dicevo. Dopo averla provata esso le ha giurato amore eterno ed io sputazzandola allegramente in faccia al malcapitato appena sbarcato da Shanghai con tanti regali, aprivo borse-sciarpe-hello kitty-ricchi premi e cotillons dicendo “sì buona ma io preferisco il pane con la nutella” e via. Verso orizzonti sconosciuti (lui) e porti sicuri (io). All’epoca mangiare una mela per me corrispondeva ad un affronto personale. Nutella era la parola d’ordine. Altro che mela. E poi un dolce che si rispetti può non avere otto tonnellate di cioccolato o venti bancali di zucchero? Ai miei occhi era un pazzo. Adesso capisco quale fosse la verità.
Ci siamo ripromessi di mangiarla insieme. Non appena per me la mela, il riso e lo zucchero elaborati in torta avranno una connotazione reale e non fantasiosa e malata.
In questa torta c’è molto di noi ed è una delle pochissime che realizziamo insieme proprio per principio. A lui piace trovarla lì che l’aspetta ma allo stesso modo bollire il riso nel latte insieme. Mentre io spremo i limoni. Lui taglia le mele con la sua precisione maniacale e. E si costruisce questa torta pian piano. Con diversi elementi e sapori. Proprio come in quasi otto anni lentamente io e lui abbiamo riunito tutto quello che c’era di noi, che fosse peggio e meglio, per dar vita ad una consistenza di vita e torta. Profumata, non troppo esagerata. Normale ma particolare. Semplicemente noi tutto qui.
Ho riaperto quel libro, ed erano anni, giusto per trascrivere e ticchettare le dosi. Essendo precisa. Anche se credo che a questa torta il sapore di noi lo potremmo dare per l’appunto solo.
Noi.
Torta di Pi e Gi
La Ricetta
Ingredienti: 250 grammi di pasta sfoglia freschissima (in assenza di voglia comprala ma è ottima anche con la brisèe), 300 grammi di riso, 2 mele abbastanza grandi Golden (o renette), 1 litro di latte, 1 baccello di vaniglia, 1 limone, 50 grammi di burro, 165 grammi di zucchero, 6 tuorli, 2 cucchiai di marmellata di limone (se fatta in casa è l’idillio), 2 cucchiai di zucchero a velo e un pizzico di sale.
Scotta il riso in acqua bollente per 3 minuti. Scolalo, passalo sotto l’acqua freddo e scolalo di nuovo. Porta ad ebollizione il latte, tenendone da parte 1-2 cucchiai, con un baccello di vaniglia, scorza di limone, burro, 150 grammi di zucchero e un pizzico di sale.
Unisci il riso al latte e cuoci a fuoco basso coperto per trenta minuti almeno senza mescolare. A fine cottura il latte dovrà essere completamente assorbito altrimenti temporeggia. Lascia intiepidire e solo allora unisci i tuorli sbattuti leggermente.
Fai macerare nel succo di limone due grosse mele tagliate a spicchi e spolverizza poi con 10 grammi di zucchero. Fodera con la carta da forno uno stampo di 24 cm e sistema sopra il disco di pasta di sfoglia che bucherellerai in fondo con i rebbi di una forchetta.
Stendi sopra lo strato di riso in cui hai amalgamato anche la marmellata di limone o se vuoi prima il riso e poi lo strato di marmellata. Poggia le mele disponendole per bene come fosse una corona e poi spolverizza di zucchero a velo e cannella (se ti piace puoi anche buttar dentro un cucchiaio generoso di cannella quando il riso è nel latte. Noi facciamo sempre così per esasperare il sapore cannelloso ma solo se fresca, altrimenti rinuncia). Ripiega il bordo all’interno ondulandolo un po’ e poi spennella con il latte tenuto da parte mescolato con un cucchiaio di zucchero in modo da formare una crosticina deliziosa all’esterno e in forno a 200 per 40 minuti finchè diventa dorata.
Si conserva benissimo e per diversi giorni, basta soltanto averne cura e conservarla in frigo, magari riscaldandola leggermente un po’ prima di servirla nei giorni a seguire.