Antonio Canova, Amore e Psiche stanti – 1810 ca
Non v’accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l’angelica farfalla che vola alla giustizia senza schermi?
Dante – Purgatorio
Non mi fustigherò mai abbastanza per non aver avuto prima la possibilità di visitare Palazzo Barolo. Certo ogni volta che sono a Torino potrei rinunciare alla mia consueta visita alla GAM, a Palazzo Madama, a Palazzo Reale, ma. Ma non ce la faccio. E allora mi sono ripromessa che nonostante i miei tour, che ripetitivi non sono ma che mi piace definire più abituali (vabbè mi sono dimenticata di citare il Museo Egizio, Palazzo Carignano e altre decine di luoghi che amo visceralmente), inserirò Palazzo Barolo che mi ha tolto letteralmente il fiato. Si trova in via delle Orfane e se sei nei pressi di via Garibaldi (e stai uscendo come me da Soup&Go, sul quale stenderò un capitolo di ottomila pagine a breve) bastano davvero pochissimi metri per trovartelo davanti in tutta la sua sfolgorante maestosità oltre che bellezza. All’incrocio con via Corte d’Appello, è lì dalla fine del Seicento e a quei tempi vi abitavano i conti Provana di Druent. Venne ospitato al suo interno Silvio Pellico fino alla morte e sulla finestra centrale si può notare ancora in maniera molto evidente lo stemma dei Falletti di Barolo (all’interno di questo Palazzo poi si narrano leggende circa Elena Matilde di Druent che a causa di un infausto presagio è rimasta “catturata” al suo interno. Pare che il suo fantasma aleggi per le sale del palazzo. Ma voglio assolutamente risparmiarmi questi succulenti dettagli in fatto di leggende misteriose per un post che sto preparando e che richiederà un po’ più di tempo).
Palazzo Barolo (sul sito ufficiale si possono trovare moltissime notizie) è stata la prima sede delle attività caritative come anche prima sede del primo asilo del Piemonte, ospitato nel grande atrio che si trova al piano terra. I marchesi non utilizzarono il palazzo soltanto per feste, cerimonie e banchetti ma anche e soprattutto per ospitare i bisognosi a cui personalmente offrivano soggiorno e piatti caldi.
(seguendo questo link molte delle opere Pie dei Marchesi Barolo)
La facciata del Palazzo, l’atrio e il caratteristico scalone a forbice furono realizzati a partire dal 1692 su progetto di Gian Francesco Barroncelli per volontà di Ottavio Provana di Druent. Lo scalone anziché a lato come nei tipici palazzi nobiliari seicenteschi occupa lo spazio centrale del fabbricato su committenza dei Falletti di Barolo. Benedetto Alfieri curò la decorazione degli appartamenti e dello scalone adeguandoli al gusto rococò. Gli allestimenti decorativi del piano terra e di alcune sale del piano nobile risalgono al 1692; gli stucchi sono di Pietro Somasso e le tele di Francesco Trevisani. Gli affreschi di Legnani. Il palazzo è uno dei più importanti e meglio conservati esempi di dimore nobiliari della città aperti al pubblico.
Inutile ribadire che per vari impegni lavorativi non ho potuto godere a pieno della visita ma in questa toccata e fuga non potevo assolutamente perdermi Amore e Psiche che inaugurata il 23 Marzo sarà a Torino fino al 16 Giugno (mica ci sarei arrivata. Anche se quest’estate, come la scorsa, il Piemonte tutto tremerà perché sì ahimè. Starò lì in pianta stabile. Anzi proprio per farla tremare bene bene siamo in contatto con agenzie immobiliari perché sì. E’ giunta l’ora di prendere casa).
Amore e Psiche, la favola dell’Anima, a Palazzo Barolo,
via delle Orfane 7, dal 28 marzo al 16 giugno 2013.
Orari: Da Martedì a Domenica 9.30 – 19.30 Giorno di chiusura: Lunedì
Info e prenotazioni: 02-29010404; 011-6502833
info@fondazionednart.it; prenotazioni@fondazionednart.it
Ufficio stampa: 339.6007601 – comunicazionegiornalistica@gmail.com
Un percorso evocativo, affascinante ed inedito. Mi sono ritrovata immersa in un accostamento di opere classiche e temporanee quasi fosse un frullato. Anzi no un centrifugato perché l’essenza dell’essenza. Un viaggio attraverso una musica ipnotizzante (generalmente mi infastidisce nei musei ma questa. Santo cielo: complimenti!) e simbolismi come catapultati a forza nella favola di Amore e Psiche. Una forza che non fa male ma avvolge e persiste. Mi piace percorrere nella penombra e quando mi ritrovo in luoghi come questi e tutto non è troppo illuminato dando così largo spazio all’immaginazione mi rimane sempre più qualcosa dentro. Lo trovo meno invadente. Mi incuriosisce di più. Mi spinge a volerne sapere e non averne abbastanza. Amore e Psiche, la favola dell’anima accende una passione verso chi per la mitologia non l’ha mai provata e ti ricorda esattamente cosa riusciva ad infiammarti; come nel mio caso.
L’ho sempre amata follemente. Ricordo come fossi (neanche troppo velatamente) perdutamente invaghita di Luciano De Crescenzo (mentre le mie amiche amavano il modello Marcus, per intenderci o Luke Perry di Beverly Hills – solo io pensavo che fosse unoscemoconicapellibrutti?) quando sfornava meraviglie di libri con in allegato videocassette (che possedevo e custodivo gelosamente. E che conservo come reliquie a casa di mamma); che divoravo in un continuo rewind stop e play in quello che credevo essere l’aggeggio più ipertecnologico che il cosmo avrebbe mai visto. Fu lui che mi fece innamorare delle nostre origini greche e delle divinità. Fu anche lui che mi fece credere che il mio destino fossero le favole, raccontare e scrivere. E quando lo incontrai a Capri e io avevo il suo libro in mano a quattordici anni non sapevo esattamente che anche quello forse era più di una casualità. O bello anche solo pensarlo.
Le sezioni della mostra seguono le diverse fasi del racconto di Apuleio, dalla passione alla serenità raggiunta attraverso la speranza, e raccolgono reperti storici di ogni epoca: dai reperti archeologici del IV e V secolo a.C., come alcune pinaches provenienti dagli scavi del Tempio di Locri e mai esposte finora, alle iconografie di Psiche dei marmi di età ellenista e romana, arte romana, ai marmi di età ellenistica e imperiale, dai dipinti rinascimentali ai gessi del Canova, da Tiepolo a Tintoretto all’arte povera di Mauri, Gilardi e Cunellis per finire con un’inedita installazione di Fabrizio Plessi.
Il progetto, ideato dalla Fondazione DNArt, nasce in collaborazione con l’Opera Barolo e ha il Patrocinio della Regione Piemonte, della Provincia di Torino e della Città di Torino.
La mostra ha il sostegno dell’ASCOM e della Camera di Commercio di Torino.
Chiunque si trovasse a passare (e amasse perdutamente Dalì come me) non ha che da catapultarsi e anche molto velocemente perché ahimè Giugno è cominciato; ergo già finito (ho un po’ capito come funziona il tempo, ormai).
Jacopo Robusti detto il Tintoretto, Origine D’Amore – Olio su tela 1562 Collezione privata
Un tempo, in una città, vivevano un re e una regina che avevano tre bellissime figlie, le due più grandi, per quanto molto belle, potevano essere degnamente celebrate con lodi umane, ma la bellezza della più giovane era così straordinaria e così incomparabile che qualsiasi parola umana si rivelava insufficiente a descriverla e tanto meno a esaltarla. Insomma sia quelli della città che i forestieri, attratti in gran numero dalla fama di tanto prodigio, restavano attoniti dinanzi a un simile miracolo di bellezza: portavano la mano destra alle labbra, accostavano l’indice al pollice e la adoravano con religioso rispetto come se fosse stata Venere persona.
Anzi nelle vicine città e nelle terre confinanti si era sparsa la voce che la dea nata dai profondi abissi del mare e allevata dalla spuma dei flutti, volendo elargire la grazia della sua divina presenza, era discesa fra gli uomini o anche che da un nuovo seme di stille celesti non il mare ma la terra aveva sbocciato un’altra Venere, anch’essa bellissima, nella sua grazia virginale.
Di giorno in giorno una simile credenza si rafforzava sempre più e la voce cominciò a diffondersi nelle isole vicine e poi più lontano in molte regioni del continente. Folle di pellegrini sempre più numerose facevano lunghi viaggi, attraversavano mari profondi per vedere quella straordinaria meraviglia del secolo. Nessuno andava più a Pafo o a Cnido o a Citera per visitare i santuari di Venere; alla dea non si facevano più sacrifici, i suoi templi erano lasciati nell’abbandono, i suoi sacri cuscini calpestati, le cerimonie trascurate, le sue statue restavano disadorne, vuoti i suoi altari e ingombri di cenere spenta. Alla fanciulla si innalzavano preghiere, e si placava il nume di una dea potente come Venere adorando un volto umano. Al mattino, quando la vergine usciva, a lei si apprestavano vittime e banchetti invocando il nome di Venere assente e, quando passava per via, il popolo le si affollava supplice intorno con fiori e ghirlande. Questo eccessivo tributo di onori divini a una fanciulla mortale suscitò lo sdegno violento della Venere vera che, scuotendo fieramente il capo e malcelando la collera, così cominciò a ragionare.