Pare che gli Arabi conoscessero già il burro ma fino alla seconda guerra mondiale in Sicilia era alla stregua di merce esotica; veniva usato da una ristrettissima elitè, insomma.
Per tradizione il burro non appartiene alla Trinacria ma piuttosto un olio di oliva denso, corposo e profumatissimo. Tutto viene condito con l’olio extra vergine di oliva. L’insalata di mia nonna ne è un fulgido esempio.
Ho sempre sogghignato e parecchio sentendo “eh. ma ho mangiato solo un’insalatina e continuo a non dimagrire. Quanto altro devo patire?”. L’insalata in questione è composta da pomodoro-mais-pezzi di tonno-cipolla-tocchetti di mammut-trecentogrammi di lardo fatto in casa- e un filo di olio extra vergine d’oliva pari alla distanza catania-messina (90 chilometri). E riposta in una ciotola grande quanto il mio salotto.
In Sicilia oltre all’abuso veramente smodato dell’olio extra vergine d’oliva vi è anche un’altra perla di leggerezza e nella fattispecie: la sugna. La sugna altri non è che lo strutto. Si usa in particolari preparazioni dolciarie tipiche della regione. I bignè, le ciambelle e anche molte paste sia dolci che salate. Quando non vi era neanche l’ombra dell’olio extra vergine di oliva si usava il liquamen, ovvero una salsa derivata dalla fermentazione nell’acqua salata di pesciolini che navigavano lì per un paio di mesi. E no. Vorrei andare avanti e neanche riflettere a riguardo; che è pure Lunedì e non credo di arrivare a Sabato senza aver perso almeno due quarti di capelli (quelli che mi sono rimasti, inciso).
E’ sorprendente come i testi che mi propino per endovena ultimamente, riguardanti la tradizione gastronomica siciliana, siano così ricchi e pieni di notizie da approfondire per poi essere approfondite e ancor più approfondite. Non si finisce mai. Vi è la storia araba e greca. Sveva e Normanna. Vi sono inflessioni spagnole e nordiche. Una miscellanea spaventosa che non può essere paragonata al resto delle regioni italiane. Nulla c’entra il campanilismo o amenità del genere, perchè non sono affatto il tipo e mi importa praticamente nulla di elogiare una regione piuttosto che un’altra. Si tratta di semplice obiettività e di uno sguardo oggettivo. Più volte si è parlato qui dello stupramento delle terri sicule e dei continui attacchi che sono poi diventati condivisioni e gemellaggi con popoli completamente diversi per tradizione. Culture mixate che hanno prodotto oltre una diversa fisionomia dei siciliani tutti (passando dal biondo chiarissimo all’olivastro con tratti fortissimi) anche una vastissima varietà in termini gastronomici.
Nella cultura alimentare degli arabi ad esempio vi erano i cetrioli e le melanzane per non parlare del caffè. A loro noi siciliani dobbiamo il sesamo, le carrube e i fichi d’india per non parlare della pasta reale stessa, diventata adesso caposaldo della pasticceria regionale nonchè motivo di vanto e orgoglio a carattere internazionale. Quando arrivano poi i sapori settentrionali quali il baccalà e l’aringa che si mischia all’arancia creando un mix sorprendentemente squisito seppur agli antipodi, si ricomincia tutto di nuovo.
In questa terra non è difficile immaginare quanto sia stato difficile abituarsi. Mai il tempo è stato amico dell’abitudine. Una continua evoluzione con un catalogo di diversità che nei secoli ha creato connubi sorprendenti per le papille gustative che ringraziano. Orientamenti francesi e tedeschi e il barocco con l’avvento del pomodoro che diventa principe e base.
Non è facile addentrarsi tra i profumi di Sicilia e decidere da dove cominciare per tracciare quasi un percorso. Per capire esattamente, o almeno provarci, dei passaggi che hanno portato ad una pietanza piuttosto che ad un’altra. E’ una linea retta infinita quella della tavola imbandita siciliana posta in questo virtuale temporale. Si potrebbe cominciare dal cous cous ben sapendo che prima ancora vi erano i Greci con le loro carni. Si potrebbe cominciare allora con le carni ben sapendo che prima vi era il pesce azzurro essicato alla maniera del baccalà.
Pian piano, ho deciso, voglio districarmi in questo spazio temporale infinito e realizzare quanti più possibili piatti che evochino la storia della mia terra.
Oggi è la volta dell’Ova cu’ (co. boh) Sucu che letteramente significa: Uova con il sugo. E’ una tradizione tipicamente siciliana quella di preparare questo semplicissimo uovo in camicia, per intenderci, con un bel po’ di sughetto. Quando il nippotorinese ha visto questo piatto è quasi balzato dalla sedia. Un po’ come quando ha visto il riso con il pesto.
All’epoca, non essendo abituata ancora alle sostanziali differenze, mi sono stupita a dir poco perchè credevo non fosse possibile. L’uovo con il sugo era conosciuto in tutto il mondo, santocielo!
Ne ero certa. E certamente sono stata smentita così senza neanche perder troppo tempo. L’ova cu’sucu tra l’altro è una pietanza piena zeppa di ricordi.
Papà non troppo spesso la sera aveva delle cene di lavoro. Noiose, noiosissime. Non era l’uomo che amava allontanarsi dalla propria famiglia e così è stato sino ad ora. E noi due donne di casa non eravamo certamente quella tipologia che ne gradiva l’assenza. Ci siamo sempre divertiti noi tre. Guardavamo un film eh, niente di che. Ma ci siamo sempre divertiti e pure tanto. Papà non ha mai particolarmente apprezzato l’uovo fritto come anche l’uovo sodo. Ero felicissima di questo proprio per la storia del pulcino liquefatto (ahem come chiamo il tuorlo da una vita, insomma).
Mamma al contrario avrebbe mangiato (e lo farebbe tuttora) uova a colazione, a pranzo, merenda e cena. Impazzisce per le uova e non smetterebbe mai. Anche quando il colesterolo arriva a trecento continua a dire “dannazione tutto. toglietemi tutto ma le uova no”.
Poi continua a dire “e il formaggio. e il lardo di colonnata. e lo strutto con i fichi”.
Per proseguire all’infinito con “vabbè neanche l’olio, la pancetta, la mortadella, il prosciutto blablablabla”, ma non è questo il punto. Papà non ha mai impedito nulla in casa e mai regole ci sono state ma se cortesemente si fosse potuto evitare di vedere il tuorlo liquido sarebbe stato meglio.
Ecco. Se c’è una cosa che il mio papà proprio non sopporta è la vista del tuorlo liquido. Dal mio canto non potevo che esserne felice perchè la vista del pulcino liquefatto turbava, e confesso pure molto, il mio animo nel profondo. Più volte ho cercato di raccoglierlo, ricomporlo e dargli vita manco fosse una notte buia e tempestosa e io fossi un novello Frenghenstin (scritto esattamente così).
Mamma per delicatezza quindi, pur amando follemente il tuorlo liquido e la scarpetta con il pane dentro, non lo preparava mai. Mai escludendo i giorni che papà aveva questa fatidiche cene di lavoro (tadan! equuativolevo!)
Ecco. Quando papà non c’era mi guardava e diceva“uovo con la salsa stasera!”
Lo diceva sempre. Vedo ancora il suo volto. Il suo entusiasmo. La sua cadenza e inflessione nell’esclamare come una bimba felice “Uovo con la salsa stasera!”. Io, per non deluderla, dicevo “però ti prego il tuorlo bello sodo eh”.
E così era. Il tuorlo era bello sodo ed io il novanta per cento delle volte lo mettevo in un angolo del piatto. Il bianco neanche si vedeva in mezzo a tutta quella salsa e non mi disturbava pertanto particolarmente. Quando era troppo felice presa dall’entusiasmo mangiavo il tuorlo e le sorridevo ma quando proprio era difficile mi diceva “ posso mangiarlo io il tuo tuorlo?” un po’ come chiedere a una che non vuole morire ed è appesa al cornicione del terzo piano “vuoi che ti dia una mano?”.
Papà tornava e io dicevo “mamma ha fatto l’uovo con la salsa!”
“Bleah! con il tuorlo liquido!”
“esattamente. Bleah!”
Bleah non si diceva (e dice) ma in questa rara occasione era concesso.
La vedo seduta in una cucina rustica la mia mamma. Sorridente. Una donna che ami invitare a cena perchè fa scarpetta, beve, fa bis, tris, quadris, bingo. Che apparecchia e sparecchia. Se è ospite lava i piatti mentre gli altri sono a tavola e accende pure la moka per il caffè.
E’ bellissima la mia mamma mentre gira pezzi di pane casareccio nel tuorlo colante e quando cola troppo e la mia faccia avvilita spunta senza che me ne renda conto, si avvicina e dice “oh. guarda che non capisci nulla eh. è buonissimo!”.
Come una bimba ne mangia due solo perchè “più di due uova no?” però poi spera fortemente che qualcuno eventualmente lo lasci per arrivare a quattro e lamentarsi che no. Non doveva farlo.
Che è capace di rigirare il tozzetto di pane pure nella padella. Felice rigira la sua passione nel giallo. Nel rispetto lo fa lontano dalle paure del suo amore. Quando non c’è. Si concede il lusso.
Ho sempre amato mia mamma profondamente per i piccoli gesti, che sono abissi di infinito, che ha rivolto negli anni a mio papà. Ho sempre disperatamente voluto amare come lei. E se c’è un piatto che mi ricorda il rispetto è proprio l’ova cu’ sucu.
Giorni fa papà e il nippotorinese sono andati ad una noiosissima cena di lavoro. Io e mamma dopo aver visto desperate housewives l’intero pomeriggio, perchè la sto erudendo a serial tv, e giocato con il das ci siamo guardate.
Abbiamo riso.
E abbiamo detto “uova con la salsa?!”.
E così è stato. Che poi il tempo mi abbia portato a non mangiarle poco importa. Ho fatto un piatto con un uovo anche per me. L’ho guardata. E le ho detto che “però il rosso ti prego proprio no”.
Ho fatto finta di mangiare. Mi ha accarezzato la testa e mi ha detto “ti amo”.
Ti amo anche io mamma.
Update:
In Memoria del grande Bonelli.