Ricette Vegetariane e Vegane

Un filo d’olio della Hornby e il Pesce D’Uovo

Il Pesce d’uovo si fa con uova, pan grattato (a muddica), pecorino grattugiato o parmigiano, sale e se vuoi un po’ di prezzemolo fresco tritato

La settimana scorsa ho avuto il grande piacere di introdurre in anteprima l’uscita della Collana Storie di Cucina con il Corriere della Sera (ieri su La Cucina del Corriere sono stati pubblicati anche il mio titolo preferito e quello che “consiglio” di leggere fuori dalla collana. Se ti fa piacere trovi tutto qui). Per l’occasione ho preparato il, e non un, piatto più speciale della mia casa che odora di ricordi e sa di amore, passato e futuro: la Norma; nella forma forse un po’ più civettuola, ovvero quella dell’involtino perché a dir la verità la Norma è un bel piatto di spaghetti che sporca i bordi del piatto. Le melanzane stanno a fetta intera sopra e poi la nevicata di Ricotta salata. Si tagliano col coltello quelle melanzane. Cosa che non si fa per galateo ma proprio per questo un gesto che significa ancor più intimità. L’ho dedicata a mio papà essendo il suo indiscutibile piatto preferito (amava molto pure la pizza alla Norma) e qualora ti facesse piacere leggerla, vederla perché ci sono anche frammenti di una videoricetta e assaporare un po’ del ricordo la trovi qui.

La seconda uscita, come avevo già preannunciato, è Un filo d’olio di Simonetta Agnello Hornby; l’ho ricevuto sempre grazie al Corriere della Sera in anteprima e ne sono molto lusingata. Come ho già avuto occasione di dire è una collana ricca di vite ed emozioni, scelta e selezionata accuratamente, con copertine dall’appeal davvero bellissimo. Trame di porcellana, di quelle che hai in eredità o che guardi da bambina sognante mentre nonna prende il tè. Anche, e soprattutto, quelle di servizi sbreccati. Grazie alla mie nonne e alla zia Immacolata anche io, nel mio piccolo, possiedo molti di questi contenitori intrisi di vita.

Mi piace aprire la vetrinetta e rigirarmi tra le mani le tazzine del corredo di nonna e i gioielli di porcellana della zia. Il servizio da tè con le rose e quello con il bordino blu. Un piattino sbreccato che quando passi il dito si ferma nel ruvido dopo una discesa liscia ed è proprio in quel momento che compaiono persone, cuori e anime. Giorni perduti ma mai nel tempo. Domani è Sant’Agata qui a Catania e non mi vergogno a dire, come faccio ogni anno del resto, che da Catanese atipica non ho mai partecipato alla festa che coinvolge non solo la mia città ma tutto il circondario etneo. I miei parenti della Calabria vengono giù e attendono questo giorno come fosse un vero e proprio evento e del resto è innegabile che lo sia. Non finisce mai in realtà la festa perché molti catanesi, devoti della Santa, la onorano in diverse date e stagioni. Dopo una settimana di cannarole, lotte tra macellai e pescatori a colpi di “annacculiata della cannarola” avvenute lunedì e tantissime tradizioni che non conosco se  non per sentito dire, si arriva alla notte della Santa. Quella della luna del 5 Febbraio che fa alba il 6. E in occasione delle olivette di Sant’Agata, un dolce tipico caratteristico di questa festa, avevo anni fa accennato qualcosa.

Dico di Sant’Agata perché, pur non essendo né una devota né una credente, confesso di dispiacermi ogni volta di non avere quel pizzico di coraggio per buttarmi nell’oceano di devoti, sconfiggendo sociopatia e claustrofobia, e gustarmi una delle feste di culto religioso più antiche in Italia. Parlare di Un filo d’olio proprio alla vigilia di Sant’Agata sembra quasi un segno. La tradizione è importantissima, se non fondamentale, nel libro della Hornby. Ho letto questo capolavoro, perché di questo si tratta, alcuni anni fa proprio all’uscita e lo scorso anno l’ho acquistato senza pensarci due volte su iTunes in formato audiolibro, il tempo di rendermi conto che era anche letto e interpretato dalla sua voce. Voce che trovo incantevole e che ha mantenuto un fortissimo accento siciliano. Porta alla luce, quel suono, tante fiabe, storie e ricordi. Quella cadenza tipica e persa che aveva solo papà, nonna e pochi altri. Mi catapulta dentro un vortice di volti, minuti e vissuti. Il mio accento, come quello dei miei coetanei e della generazione appena passata, non ha quella musica. Quella nenia. Non è quel suono identificativo che tutti hanno del siciliano. E’ nella sua essenza più pura, a tratti aulica.

La Hornby è capace di farti sentire l’odore della Minestrina primavera di Giovannina con le fave e i piselli appena raccolti mentre sfogli le pagine. E trovi ricette. E trovi foto di commovente bellezza. Senti proprio il rumore del coltello che taglia le melanzane e u Caffè d’u parrinu speziato; due giorni di raccolta del tufo e di bollitura, infusione, ribollitura e poi “si doveva arripusari” dopo il tocco magico di Rosalia.

L’innata regalità della narratrice non è affatto dovuta a un casato o all’albero aristocratico della famiglia a cui appartiene; viene ringalluzzita poi da un’educazione fatta più col cuore che sulla scala gerarchica. Parlare in siciliano con i contadini, come voleva suo padre, ma ad Agrigento con i tutori e i domestici no, perché in città c’era un ruolo diverso e ben preciso. Cambiare completamente menu e “accontentarsi” di quello che mangiavano i contadini quando si era nella tenuta di Mosè, al contrario di ciò che si trovava sulla tavola di Agrigento. Il netto contrasto tra la cucina moderna di Mosè, ristrutturata per via della guerra, e quella d’antan di Agrigento; come un eterno ribaltamento di ruoli ma senza mai sbagliare una mossa. Una riflessione poetica e attenta che ci fa riflettere anche sugli sprechi. In generale intendo, ma soprattutto nella sfera di quello che concerne il cibo. La sacralità del piatto e tutti i segreti ivi contenuti; perché come più volte sostiene nel suo magnifico libro una ricetta non c’è. La lascia per carità ma non sempre l’originale. Lei e sua sorella Chiara, la prima scrivendo e la seconda provando le ricette, ce l’hanno davvero messa tutta in questa trasposizione di anime che le ha catapultate bambine nuovamente a Mosè qualche anno fa, quando già madri e nonne si sono ritrovate sotto gli stessi alberi, tra le stesse mura e con generazioni a seguire di contadini. Hanno tentato insieme e con l’aiuto dei figli e di chi è rimasto di riprodurre u Caffè d’u parrinu: “Antonia e ora Chiara lo preparano esattamente come lei. Ma il loro caffè d’u parrinu, benché ottimo, non è la stessa cosa: manca il tocco magico di Rosalia”.

I biscotti plasmon presi a letto per la colazione e mangiati frettolosamente in un ritmo incessante come la città stessa. Una tavola imbandita e sontuosa invece con la cagliata fresca, il budino di latte e zucchero con la cannella pestata e dolci fiocchi di ricotta che si sposavano alla perfezione con il siero in cui si ammollavano pezzetti di pane duro per la colazione a Mosè; in quel luogo dove il tempo si fermava e tutto era avventura, gioco e divertimento. Era come vivere nell’attesa che le lancette per Mosè arrivassero. Ci sono i racconti del pane, che è un lavoro da donna e parla d’u crescenti (una sorta di lievito). Ed è un colpo al cuore sentirla scrivere e dire crescenti perché anche il mio papà diceva sempre che il pane di sua mamma fatto c’u crescenti aveva tutta un’altra magia. E io lo ricordo. Eccome se lo ricordo il pane di Nonna, sfornato caldo con quel filo d’olio che qui in Sicilia poi nell’elaborazione più complessa del pane cunzatu (pane condito) rappresenta un portabandiera di ricordi importanti nella vita di tutti. I momenti sacrali di quando il pane viene “nisciuto” (uscito, sì. Dal forno. In barba ai verbi intransitivi). I personaggi che vivono Mosè e gli occhi di una bambina sognante che succhia il filo d’erba che sa di limone; una delle tantissime cose che mi accomuna a questi ricordi. Perché per quanto assurdo e pazzesco possa sembrare, visto il salto generazionale, tutto quello che narra l’autrice sa così tanto di Sicilia che in qualsiasi contesto sociale, temporale e d’ambientazione si possa aver vissuto sa ugualmente di casa. Non c’è più Catania, Palermo, Messina, Agrigento, Enna ma solo Sicilia. Quel triangolo lanciato in un mare blu e perso in un cielo leggermente più chiaro dove fuoco di lava e nuvole di neve trattengono templi, leggende e mitologie. La Hornby ti ricorda quanto meravigliosa sia la mia terra. Riesce a ricordarlo a una come me, che più volte fa il giro del mondo soprattutto in testa ma che alla fine sa. Dove abita il suo cuore. A una che la racconta poco per paura di non saperlo fare. A una che ne parla male talvolta perché le ferite aperte, in un grande amore, fanno così male che tendono ad aggrovigliarsi in dolori infiniti. Tortino di zucchine, patate e cipolle al forno, Zucchine, patate e cipolle in tegame, Polpette di carne e di melanzane (in cui mia mamma è imbattibile e vuole che la sfidi con la ricetta di Simonetta proprio in questi giorni, ma so già che vincerà lei), Pomodori ripieni, Pesto povero e coniglio al rosmarino. La Caponata di melanzane, il Budino di semolino con la cotognata e la Gelatina di uva e melagrana. Tutti i dolci che adorava anche il mio amato papà e di cui non smetteva mai di tessere le lodi. Gli venivano gli occhi lucidi e sbatteva un po’ le sue lunghe ciglia, papà. Quando parlava della cotognata e di quel pane. Quando raccontava delle prime pizze fatte nel forno a pietra con il pomodoro fresco dell’orto di Nonno ma non con il formaggio perché non potevano permetterselo. Di quando era festa e si dividevano un pezzettino di cotognata. Di quando misero il telefono e lui era già grande e rideva da solo “come un cretino”, raccontava, dicendo “Sono Turi. Mi senti? Sono Turi. Mi senti?” e ridendo. Ridendo. Ridendo fino a non farcela più. Papà non era un barone, un conte e neanche un aristocratico, ma il quarto figlio di una famiglia povera ma onesta e lavoratrice. Eppure a Mosè in quella tenuta sontuosa ci sono anche ricordi e storie di tanti siciliani, sicuramente tutti, come un filo d’olio continuo. Lucente e bello come il sole che non ci abbandona. In ogni parte di noi.

Un filo d’olio della Hornby è un capolavoro, che per chi ama la Sicilia ma anche le storie di amore nei confronti della terra famiglia e ricordi va assolutamente letto.

Ho deciso di fare il pesce d’uovo tra i tantissimi spunti che dà l’autrice perché mi fa sorridere. E’ il giusto punto d’incontro della ricchezza e della povertà. E’ qualcosa che vuole somigliare a un pesce ma rimane uovo. E non per questo meno buono. Lo faceva mia zia Mimma. Lo faceva mia Nonna. Lo amano tutti in Sicilia il pesce d’uovo. Non c’è Siciliano che non lo chiami così. E io, che ho sempre avuto problemi con il pulcino liquefatto, quando vedevo il pesce d’uovo un sorriso lo facevo. Due capperi per occhi e nelle lische fitte fitte si intravedono vite e tanto amore.

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Iaia
Iaia
Grazia Giulia Guardo, ma iaia è più semplice, è nata il 12 12 alle 12. Il suo nome e cognome è formato da 12 lettere ed è la dodicesima nipote. Per quanto incredibile possa sembrare è proprio così. Sicula -di Catania- vive guardando l’Etna fumante e le onde del mare. Per passione disegna, scrive, fotografa, cucina e crea mondi sorseggiando il tè. Per lavoro invece fa l’imprenditrice. Digitale? No. Vende luce, costruisce e distrugge. Ha scritto un libro per Mondadori, articoli per riviste e testate e delira pure su Runlovers, la comunità di Running più famosa d’Italia; perché quando riesce nel tempo libero ama fare pure 12 chilometri. Ha una sua rivista di Cucina, Mag-azine, che è diventato un free press online. È mamma di Koi e Kiki, un labrador color sole e uno color buio, mangia veg da vent’anni, appassionata di cinema orientale e horror trascorre la sua giornata rincorrendo il tempo e moltiplicandolo.

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