Niente 12.12 oggi. Dieci e dieci.
Da “Sono figlia dell’Olocausto” di Bernice Eisenstein:
“Anni dopo la morte di mio padre, mia madre vendette la casa e si trasferì in un condominio. Era una decisione pratica e lei la portò avanti con un’autonomia toccante. Durante una visita nel suo appartamento, non molto tempo dopo il trasloco, la trovai che passava in rassegna i suoi gioielli in un ripostiglio e mi domandò se c’era qualcosa che mi sarebbe piaciuto avere. A differenza di mia madre, io ho sempre collegato dei sentimenti alle cose convinta che gli effetti personali possiedano una forza, che possano catturare l’essenza dei loro proprietari.
Mia madre, forse perchè durante la guerra le era stata tolta ogni cosa di valore, non è capace di affezionarsi ad un oggetto. Da un sacchettino di stoffa prese un anello che suo padre portava sempre, con dei brillantini incastonati nell’onice. Lo volevo? Esitai per non urtare i suoi sentimenti. L’anello del nonno sarebbe dovuto andare a una persona a cui, nel ricordarlo, venissero facilmente pensieri affettuosi. No, grazie, lo prendesse pure qualcun altro. Allora preferivo avere qualcosa della nonna? Mi porse un anello con una pietra enorme che mi fece venire in mente la parola: chaloshes, un pugno nell’occhio. Ancora una volta per un motivo diverso, pensai che quell’oggetto dovesse andare a qualcun altro e non a me. Dopo aver ripetuto alcune volte il tira e molla del generoso e dell’ingrato, mi tese un altro anello: questo lo volevo?
Molto di rado mia madre mi ha sorpreso, ma era difficile che mi offrisse quell’oggetto così, per caso. Una semplice fascia d’oro, non un cerchio perfetto, ma leggermente schiacciato, reso ovale. La fede di mio padre. “Ora ti racconto la sua storia” disse, e andammo a sederci in cucina, l’anello posato sul tavolo. Mia madre era arrivata in Canada molto prima che questo paese divenisse la sua nuova patria. Quand’era a Birkenau, ogni giorno veniva portata con le altre prigioniere in una parte del campo che aveva preso il nome dall’abbondanza che vi regnava. Per un breve periodo mia madre aveva lavorato lì, in uno dei tanti magazzini. Era un luogo dove gli oggetti confiscati agli ebrei – orologi, scarpe, vestiti, libri, bollitori per l’acqua, biancheria da letto, occhiali- venivano divisi in mucchi che crescevano senza sosta. I prigionieri diventavano archeologi che catalogavano i resti della loro cultura morente. Un giorno, mia madre aveva tanto freddo che aveva trovato il coraggio di chiedere alla guardia se poteva prendere un cappotto dal cumulo dove ce n’erano tanti e tenerlo addosso per la durata del turno. La guardia aveva annuito e con un gesto le aveva indicato la pila degli indumenti. Mia madre si era messa il cappotto e aveva infilato le mani in tasca per godersi il lusso di un momento di calore. Così facendo si era accorta che c’era qualcosa cucito dentro la fodera, e senza attirare l’attenzione, pian piano era riuscita a tirar fuori un anello: proprio quell’anello d’oro che ora stava dando a me. Se lo era nascosto in una scarpa e l’aveva tenuto fino a guerra conclusa; era tutto ciò che aveva da donare a mio padre quando si sposarono, poco dopo la liberazione. Lui lo portò sempre. Fa parte dell’immagine che ho di lui sul letto di morte. L’anello reca un’incisione L.G. 25/II 14.
Un uomo si era sposato nel febbraio del 1914 ed era morto a Auschwitz. Una volta ho letto che i cinesi attribuiscono tanto valore alla giada perchè credono che lo spirito di chi la porta penetri nella pietra e possa arrivare alla persona che la indosserà di seguito. Così porto l’anello come un’eredità dolceamara, da uno sconosciuto a mia madre, da lei a mio padre, e poi a me. Mia madre è sempre stata in grado di dare e ricevere la semplicità del contatto umano: l’abbracciai e le dissi grazie. Non so se abbia capito davvero che cosa significhi per me questo regalo. Per motivi che non sono sicura di comprendere appieno neanch’io, non sono mai stata capace di formulare davanti a lei le parole per spiegaglierlo. Mio padre è tornato da me, e io porto lo spirito dei morti dentro un cerchio d’oro. L’anello continiene tutto ciò da cui provengo”.
L’anno scorso c’è stato Maus e i bagel;  citavo già “Sono figlia dell’Olocausto”, l’ennesimo capolavoro che fa delle Graphic Novel un genere troppo spesso sottovalutato da chi non è avvezzo alla profondità .
Il cerchio della vita e della fede come simbolo di inizio e fine senza un vero inizio e una fine. Un’eternità di dolore inarrestabile.Â
“La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati ( wikipedia).
Ho preparato i Kaak, che mi ricordano quella fede. Ho avuto difficoltà a terminare quella lettura dolorosa e proprio il primo scoglio da superare è stata l’introduzione, quella che ho trascritto. Sono dei biscotti semplicissimi. Esistono svariate ricette con o senza la presenza del latte. Li avevo già preparati ma questa volta mi sono affidata a dosi diverse, scovate su  un blog americano di una ragazza di origine ebraiche (riporterei il link se solo lo ricordassi. Mi sono ripromessa di cercarlo e al massimo fare un update in seguito).Gli ingredienti sono: 1 cup di zucchero, 1/2 cup di olio, 2 uova, 4 cup di farina, 3 cucchiai non troppo abbondanti di lievito e acqua di fiori di arancio. Dopo che hai impastato, e aggiunto un po’ di farina qualora l’impasto non dovesse risultare perfettamente compatto e lavorabile, forma dei piccoli cerchi e lascia cuocere per non più di 15 minuti a 180 gradi.Â
Puoi sospendere i ricordi, legarli, avvolgerli, accarezzarli, unirli e abbracciarli ma. Mai dimenticarli. Puoi al massimo alzare il naso e guardare il cielo e sperare che mai nessuno più dovrà tener dentro questa esplosione di dolore.