Ingredienti per 12 ciambelline circa
- 175 ml di acqua tiepida
- 1 cucchiaino e 1/2 di lievito di birra secco (o un cubetto fresco)
- 330 grammi di farina
- 1 cucchiaino di sale
- olio di semi per friggere
- (guarnizione secondo i gusti)
Mescola il lievito con 75 ml di acqua tiepida. Gira per bene e lascia riposare per qualche minuto. In un recipiente mescola la farina setacciata, il sale e l’acqua con il lievito. L’acqua va aggiunta pian piano prestando attenzione ai grumi che la farina potrebbe creare. Una volta girato per bene aggiungi la restante acqua tiepida poco alla volta. Lavora fino a ottenere un bel panetto elastico e non appiccicoso. Olia un contenitore e poggiaci dentro un panetto. Coprilo con un panno e lascia lievitare almeno quattro ore in un luogo fresco e asciutto. L’impasto gonfierà raddoppiando il volume; non devi sgonfiarlo ma lavorarlo con cura quando formerai le 12 ciambelline. Scalda per bene l’olio in una pentola piuttosto alta. Quando l’olio è caldissimo butta le ciambelline poche alla volta in modo da non far abbassare eccessivamente la temperatura dell’olio e cuoci. Novanta secondi (quasi due minuti) per parte dovrebbe bastare. Quando sono belle dorate e gonfie toglile dall’olio e lasciale asciugare su carta assorbente. Vanno mangiate subito e super calde. Possono essere impreziosite da zucchero a velo o miele (anche cioccolato fuso sopra eh. Mica qualcuno ce lo impedisce).
In Marocco ci sono stata due volte e troppo di fretta. Ci sono stata virtualmente ma non troppo durante quello che comunemente nel web si definisce “incontro” ma che per me è stato un “ritrovo”. E con chi si è premurato di venirmi ad abbracciare, coccolare e incoraggiare. Facendomi stupire, gioire e diciamolo allibire. Per l’incredibile volontà di dedicarmi del tempo. Impagabile. Oggi per la settima tappa del Pappamondo ho scelto proprio questo incredibile paese che mi ha ospitato mentalmente, oniricamente e fantasticamente diventando quasi passpartout per accedere al Mondo dei ricordi più intensi e profondi. E’ un giro del mondo, che ha la scusa di raccontarne principalmente i sapori, ma come in tutto quello che farnetico e deliro racconta quanto di più profondo c’è e che le mie viscere trattengono.
Il Marocco
il regno dell’Occidente, stato dell’Africa settentrionale e del mondo arabo bagnato dal Mediterraneo e dello Stretto di Gibilterra, che mi ricorda un Capodanno passato in nave con mare forza otto e una tristissima discoteca al ponte dodici. Neanche se non fossi stata astemia avrei potuto in qualche modo colmare quel delirio visivo. Ballare musica anni ottanta con una tempesta in corso e quella cena che va su e giù manco ballasse il tuca tuca, beh. Come chiusura dell’anno non c’è male. Il Marocco (la Tunisia non me ne voglia) mi ha intrigato molto di più. Un fascino colorato, esotico e caldo fatto di profumi e finezze. In occasione della Terza tappa, in Siria con la torta di Cioccolato e Datteri, avevo accennato qualcosa sull’uso del montone, dell’agnello (pregiato per il prezzo) e del manzo (il più diffuso) in riferimento alla cultura beduina. La frutta secca poi caratteristica della cultura araba si ritrova chiaramente anche in questa magrebina, tanto quanto le spezie, zafferano, menta, olive, limoni e una varietà di erbe aromatiche. Tajine colorate, pane ad ogni pasto e piatti unici formati da Cous Cous con pesce, carne e varietà di verdure. Niente bevande alcoliche ma thè buonissimi speziati e alla menta che in un sol sorso ti fanno perdere la testa. Harira, Tanjia e Bstilla oltre il Cous Cous.
L’harira (حريرة)
è una zuppa tradizionale della cucina berbera che viene preparata generalmente durante il periodo del Ramadan ma anche ai matrimoni e nelle celebrazioni importanti. E’ una zuppa che contiene carne, pomodori e verdure. Tanjia è un piatto a base di montone o di agnello con aglio, cumino, zafferano e limone. Delizie ricoperte da una sorta di sfoglia e rielaborazioni incredibili sempre con l’uso di carni e verdure, che possono essere rilette anche e soprattutto in chiave vegetariana. Cous Cous, verdure e spezie. C’è forse qualcosa di più buono? (da qualche parte qui, se avessi un archivio funzionante dovrebbe esserci del Cous Cous dolce speziato)
I dolci arabi tutti e in particolar modo i dolci del Marocco sono apprezzati ormai in tutte le parti del mondo. Diffusissimo il kaab el ghzal, ovvero le corna di gazzelle, che è un pasticcino ripieno di mandorle e ricoperto di zucchero, che ricorda per forma ed essenza le Cassatelle di Agira. L’halva, reinterpretata in diverse parti della cucina araba, che ho eseguito al Cocco diversi anni or sono e che ho elaborato in diverse forme, dal pistacchio al cioccolato, nel progetto di cui vi continuo a parlare presto in pubblicazione. Poi le paste fritte ricoperte al miele, evocazione un po’ se vogliamo della pignolata messinese, che sono state servite anche all’Hafa Cafè.
Tutto innaffiato da ottimo tè alla menta che è proprio gusto e forma d’arte. Un’abitudine giornaliera tanto quanto quella di versare il tè. Le teiere splendide marocchine infatti devono avere dei lunghi e curvi becchi in modo da poterlo versare uniformemente in piccoli bicchieri a una precisa altezza (sempre nel suddetto post dell’Hafa Cafè potete apprezzarne il rituale. Infatti dopo il Cous Cous sono stati servite fuori sotto tendoni e cuscini le prelibatezze dolci marocchine insieme al tè.
L’arte di cucinare a fuoco lento nelle tagine, contenitori di terracotta con coperchio di forma conica i cui protagonisti,insieme alle spezie, sono soprattutto (come sempre e più volte ribadito) agnello e manzo. La carne (kebab) è ovunque ma si trova anche dell’ottimo pesce ricchissimo: aragoste nere, ricci di mare, orate, pesci di San Pietro, Pesce Spada e tantissimo altro. La salsa fredda, chermoula che mescola spezie ed erbe tritate è usata per marinare il pesce o condire la carne prima di cuocerla, anche semplicemente alla brace.
Vorrei proprio dedicare un capitolo a parte per il Marocco in quanto a vastità artistica mi affascina e non poco.
Nel Catanese e nel Palermitano Sfinci
(spinci) – Sfinciuni (Spinciuni) assumono significati culinari completamente diversi. Lo sfincione palermitano è un prodotto gastronomico salato inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani tanto quanto lo Sfinciuni di San Giuseppe, che nel catanese è collegato alle Crispelle di Riso e miele su cui ho blaterato a ben donde anche sul libro dedicandone la ricetta a papà (potete trovare il post qui), ed è invece un prodotto dolce. Il nome ha derivazione greca “spongos” che significa Spugna ma anche araba “isfang” significa frittella. In arabo letteralmente indica frittella addolcita dal miele. Questo fa pensare che le crispelle catanesi con il miele debbano in qualche modo l’origine proprio alla dominazione araba piuttosto che greca. Lo sfincione palerminato ha un ingrediente base che è poi l’impasto del pane-pizza con sopra salsa di pomodoro, cipolla, acciuga, origano, caciocavallo ragusano; si può gustare praticamente ovunque come street food Palermitano in gastronomie, bar e panifici. Rimane comunque lo street food per eccellenza e ne ho parlato insieme al Pane Ca Meusa e una serie di particolari culinari nelle mie diverse trasferte di Palermo (qui, qui e qui). Lo sfincione non è assolutamente paragonabile alla scacciata Catanese. Ci tengo a sottolinearlo perché in tantissimi fanno una leggera confusione. Urge fare un trattato su Sfinciuni, Scaccia Ragusana e Scacciata Catanese, magari in un Giro Pappamondoso rivolto allo street food.
Ma perché mi sono persa ancora una volta nel legame Africa settentrionale e Sicilia? Beh perché rimango fautrice di quel che sostenevo appunto nel post dedicato alla Siria con la torta di Datteri. La cucina marocchina influenza tantissimo il versante occidentale siciliano e Trapani ne è l’emblema anche per la cottura delle carni. I marocchini sono tra i primi ad approdare nelle nostre terre, tanto da “guadagnarsi” poi una tristissima generalizzazione per quanto concerne l’etnia africana in genere. Qualsiasi africano sbarchi in Sicilia luogo comune vuole che sia “un marocchino”. Una scortesia e un’indelicatezza che fortunatamente ormai si sta perdendo (per chi è dotato di un minimo di intelletto, intendo). Queste Sfenji hanno ricordato a mamma (tanto da sussultare in preda a spasmi) le crispelle salate catanesi che generalmente inondano di odori le strade della mia città durante l’inverno. Ne ho parlato diverse volte. Crispelle fritte che dentro contengono acciuga o ricotta. La differenzazione come nell’arancino è data dalla forma. Forma tonda: Crispella (con la i!!!) con la ricotta. Forma lunga: Crispella con l’acciuga. Adesso hanno cominciato a infilarci dentro di tutto e trovo disgustoso che ce ne siano in giro anche con la nutella, ma dopo l’arancino con la nutella c’era proprio da aspettarselo. Le Sfenj venivano preparati in chioschi che si affiancavano a quelli dove venivano arrostite teste di agnello, che rimangono a gran sorpresa dei prodotti tipici per la prima colazione. Di tutto questo nei suk marocchini ancora oggi si può apprezzare la vendita. Le Sfenj devono essere cotte sul momento e possono essere arricchite da miele e zucchero. Con 1 dirham (ovvero dieci centesimi), ci dice la Lonely Planet, si può avere una ciambellina calda calda mentre per due euro circa, ovvero 23 dirham, un bel chilozzo per svenire felici tra i suk insieme agli amici (oppure da soli checccifrega è Natale!).
Non c’è meglio di niente che una bella Sfenj caldissima e appena tirata fuori dall’olio, accompagnata dalla freschezza di un tè per questi pomeriggi invernali fatti di amici, parenti e bivaccamenti sul divano. Questa ricetta è incredibilmente buona e bisogna fare solo attenzione all’acqua. Ne potrebbe servire leggermente meno o di più, per cui è importante regolarsi con quel fatidico “a occhio”. Una delle scene che più mi piace ricordare è il Signor Papale che prepare le crispelle. Quelle con la ricotta e l’acciuga, sì. Amico di papà e grande cuoco, gestisce una Gastronomia poco distante dal mio ufficio. Una famiglia che da generazioni, ormai, delizia il palato di tutti i Catanesi. Si muovono proprio in massa per venire a prendere buste ricolme di crispelle. E poi si fa un salto di fronte da Alecci, che offre in assoluto la migliore granita al pistacchio di tutto il territorio catanese e non. Quando ero piccola mi ricordo che tenevo la mano a papà. Aspettavamo il turno. Tutti lo salutavano e io ero orgogliosa e ammirata che fosse un uomo così conosciuto. Stavo lì immobile appiccicata lungo la sua gamba e tenevo quella manina stretta stretta senza muovermi. Con il mio cappottino rosso. Alzavo lo sguardo e dicevo “mamma mia che bello il mio papà”. Mi guardavo intorno. Sorridevo alle bambine che a loro volta mi sorridevano. E pure a quelle che si giravano intimidite. E pure a quelle che mi facevano la linguaccia. Sorridevo proprio a tutti e pensavo.
Tanto io ho il papà più bello del mondo. E il Signor Papale impastava sapientemente le crispelle e le annegava nell’olio bollente. Quando sfrigolavano e io indietreggiavo papà mi diceva che non dovevo aver paura. Perché c’era lui. Allora coraggiosa mi sporgevo in avanti e vedevo che nell’olio si formavano le crispelle. Si allungavano. Si stringevano. Si diramavano. Erano le nuvole dell’olio.
Ecco a me le Sfenj hanno riportato a quel momento, catapultandomi poi a Casablanca. Ero con papà. Ero nel suk. E in un momento di confusione gli ho stretto la mano. Come facevo spesso perché anche se avevo superato i trent’anni non ho mai smesso di dare la mano a papà. E se ancora la guardo bene.
E’ stretta a lui.