L’amore infantile di due amici come Ron e Hermione con cioccolatini su un treno verso Hogwarts. L’amore rocambolesco tra morti apparenti e risate di Joey e Rosalia. L’amore impossibile tra nevicate e labirinti di sogni di Edward e Kim. L’amore passionale e intenso di Gomez e Morticia tra Mani mozzate e zii pelosi incomprensibili. L’amore più per se stessi che per la coppia di Lupin e Fujiko tra diamanti e banconote volanti nel cielo. L’amore insano ed egoista di Guy e Rosemary che genera odio e terrore. L’amore stereotipato da favola moderna di Edward e Vivian che fa dimenticare Cenerentola e il Principe Azzurro. L’amore senza tempo e luogo di Anakin e Padmé tra rinascite nel male e morti nel bene. L’amore fatto di attese e sconfitte di John e Nancy tra dolori immensi e sentimenti preziosi. L’amore della Principessa e del suo Pirata Westley e Bottondoro tra vortici di magia ed ere sognanti. L’amore ghiacciato e caldo di George e Jim come sangue su neve. L’amore mai nato tra Chow e Su in una danza dolorosa piena di tormento. E infiniti amori mai raccontati che ci sono tra queste righe, ricordi e volontà. Perché a ben guardare è come se non avessi mai iniziato ancora. Decidere di sì per Edward e Kim e non per Johnny e Babe. Come colpire birilli che hanno teste di coppie. Colpisco. Chi rimane in piedi lo raccolgo. Lo racconto un po’. Chi è caduto. Viene trascinato via. Chissà dove. Per un altro tempo.
La tredicesima coppia del Progetto San Valentino.
Volevo in questi piccoli ritratti di coppia, correlati a qualche pasticcio in cucina, far emergere sicuramente l’amore raccontato da cantastorie d’eccezione; gli stessi poi che catturano la mia attenzione. Solo che manca Lynch, mi sono detta mentre buttavano giù il cartongesso della lavanderia. Vorrei un attimo riprendere Velluto Blu o Strade Perdute, mentre su Twin Peaks vorrei tornare in separata sede, perché mi piacerebbe capire se è rimasto quello che si è aperto nella mia testa a livello di immagini. Ma è tutto negli scatoloni imballati. E chissà per quanto tempo ci rimarrà. Non avendo l’opportunità di “studiare” un po’ ma dovendo correre freneticamente a destra e manca senza avere in più una dimora stabile, fa sì che tutto diventi esponenzialmente difficile. Dovendo affidarmi totalmente a me (che è sempre una cosa che mi infastidisce parecchio) per ottimizzare i tempi le scelte ricadono naturalmente su quello che più ho memorizzato nel corso degli anni. E se per Lynch qualcosa mi sfugge per Bill e Alice no. Proprio come per Jack e Wendy. Lo so. Avevo detto che Jack e Wendy erano ovviamente compresi nel progettino di San Valentino. La Ricetta sarebbe stata una bella colazione a letto; quella che Wendy porta a Jack nei primi giorni all’Overlook Hotel. La stessa poi che compare tra le pagine del libro che racconta un amore completamente diverso che intercorre tra i due protagonisti (poco evidente nella rappresentazione di Kubrick). Ma non è tempo (perché non ne ho) di rientrare all’Overlook per me. Kubrick però balza in cima ai miei pensieri. E’ sempre lì fisso e allora quel povero neurone compromesso, che è l’unico che mi ritrovo tra le polveri del mio esaurimento, mi fa comparire una maschera. Poi la locandina di Shining ma vista attraverso gli occhi di Cruise che interpreta Bill. Perché lo sai vero che c’è la locandina di Shining in Eyes wide shut in una inquadratura famosissima, vero? (fermo restando che la domanda vera è: quale inquadratura di Kubrick non è famosissima?)
(e famosissima è detto proprio scandendo tutte le esse lentamente come a rafforzarne l’importanza).
Eyes wide shut è un prodotto postumo di Stanley Kubrick. Forse l’unico che apparentemente si concentra sul rapporto di coppia. Una pellicola sofisticata e intrigante che apparentemente odora di perversione, gelosia e allucinazione. Nessuna delle dodici coppie precedenti ha una tale componente enigmatica (altrimenti perché porterebbe la firma di Kubrick il racconto di questo amore? E il numero 13?). Tra overdose, sogni, incubi, vaneggiamenti, volontà involontarie e curiosità verso il perverso si svolgono le vicende mascherate dei due protagonisti. Nonostante si abbia una visione comune un po’ “oscena” di questa visione, non vi è mai qualcosa di davvero disturbante sessualmente. Nel senso che (uhm ci provo a spiegarmi, sì). L’immaginario collettivo poco attento fa passare alcuni fotogrammi di Eyes wide shut e di questo amore come perversi e “forti”. Io, che bigotta sono (oh sono pur sempre quella che ha dato di matto ed è uscita dalla sala guardando “Il gusto dell’anguria” come davanti a una gravissima offesa personale. Ma questa è un’altra storia), potrei far parte di quella schiera, insomma. Ma come si fa con il grande maestro Kubrick che riesce con classe innata e smisurata a rendere asettico il senso e l’esasperazione massima sessuale? (Ce la sto facendo a spiegarmi? No). Le scene dell’orgia stessa sono delicate e poetiche e sminuiscono il sesso rendendolo qualcosa che fa contorno e non al quale affidare le proprie sensazioni e i propri giudizi. Io che provo fastidio fisico per le scene esasperate di sesso (stando ai miei parametri potrei essere turbata anche da un bacetto di Mickey Mouse e Minnie; per dire) ho trovato ribadisco – poetica – la scena dell’orgia. No, lo voglio ridire: poetica. Ecco. Proprio perché vista da un osservatore che sminuisce e per certi versi “condanna”. Al contrario di quello che accade tra i due protagonisti. Dove tutto diventa estremamente intimo (forse troppo) e maniacalmente sensuale. Pregno di una carica erotica non indifferente.
La noia della coppia e l’esasperazione di quello che diventa dopo anni. Le considerazioni che si hanno in riferimento alla routine (collego tutto visivamente alla scena di lei in abito da sera sulla tazza del water mentre lui allo specchio si sistema il papillon prima di andare a una lussuosissima festa natalizia). A quanto possa essere mortificante e stressante ripetere sempre gli stessi gesti. Rivolgere le attenzioni sempre nella stessa direzione. Conoscere l’avvenimento successivo e non aspettarsi mai nulla di nuovo che corrisponde a entusiasmante e perché no: semplicemente bello. L’apatia. L’atarassia.
Il grande Kubrick ancora una volta non porta al cinema semplicemente la trasposizione in pellicola di un romanzo. Non fa vivere personaggi che prima erano su carta dando un volto, un ambiente e un colore. Perché lui non è un burattinaio che muove i fili di qualcosa di già predefinito. Di una storia raccontata. Kubrick come ha fatto con Shining adopera uno scritto come pretesto per insegnarsi e insegnarci qualcosa di profondo. Per analizzare. Rielaborare. Sottolineare. E lo fa con un genio e uno stile inimitabile e non replicabile. Con questo amore Kubrick mette in risalto la bassezza degli istinti umani che rimangono comunque scimmie (un monolite può comparire come in 2001 per favore regia?). Lo fa con una trasparenza disarmante che però deve essere colta. La “nasconde” per certi versi sperando che arrivi a chi deve arrivare e non certamente a tutti.
Le apparenze imposte dalla società che richiamano poi il lungo mio ticchettare di ieri in riferimento a Chow e Su. Per riaccendere passioni sopite si ha bisogno di quella verve. Di quella novità. Di un marinaio sconosciuto e di maschere su nudità che mostrano semplicemente la bellezza dell’inconscio e dello sconosciuto. L’apparente perfezione di quello che non si conosce. Ma è poi la comprensione e il “triste” epilogo felice di ritornare nelle certezze che ci aspettano nel letto da anni a farci sentire per certi versi migliori. Anche questa visione di Kubrick racconta e analizza cercando di scavare nel più profondo dell’ego. Spingendosi verso quel limite sconosciuto. Lasciando interrogativi, quesiti e tormenti. E’ una visione che insegna e che impara dall’insegnamento che lascia. Come in un vortice incomprensibile. E’ di quelle storie che puoi interpretare e non interpretare e che richiede un giudizio, una sensibilità e un catalogo emozionale importante. Bill e Alice rappresentano una Coppia che è e che non è allo stesso tempo. Non sono definiti in quanto rivestono completamente il ruolo di se stessi. Diventano solo un tramite. Un esempio. Un’allegoria. Una metafora stessa della routine dell’amore. Come punto di rottura o come caposaldo di forza?
Un po’ come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina. In una genesi e in un epilogo che riporta ai quesiti base dell’esistenza stessa. Gli stessi che si ritrovano ricorrenti in 2001 Odissea nello Spazio e in tutti i prodotti, enigmatici e visionari, di quello che rimane un Messia in fatto di pellicola.
Anche in Eyes wide shut c’è del cibo che sembra non essere casuale. Ho scelto dei biscotti al cioccolato perché in una scena Alice mentre fuma li mangia in pigiama accanto a un bicchiere di latte. La sua routine. La scena è contrapposta a lui nel pieno della “perversione” dall’altra parte della cornetta. I colori della scena di Alice sono confortevoli, rassicuranti, leggeri e molto tenui mentre in quelli della scena di Bill molto rossi, forti, accecanti e vi è una tavola imbandita e confusa di roba d’asporto. Confusa. Disordinata.
Un cibo contrapposto che diventa elemento stesso dell’essenza tutta.
Sembrano farciti di una crema, di quella bianca. Sono confezionati ma non riesco a capire di che marca sono. Poi mi avvicino un po’ allo schermo e sorrido. Ecco cosa mi hanno ricordato: gli Oreo!
Gli Oreo mi hanno fatto pensare immediatamente a Jack, Wendy e Stanley quando ne ho ticchettato in questo post qui. Ricordi? Un caso (o no?) che tutto ripartisse dall’inizio.
La Ricetta
125 grammi di Philadelphia
250 grammi di biscotti Oreo
150 grammi di burro (100 di burro e 50 di burro di arachidi in alternativa)
3 uova
30 grammi di cacao amaro in polvere
120 grammi di zucchero semolato
150 grammi di cioccolato fondente al 70%
1/2 cucchiaino di lievito
Io ho frullato senza un ordine preciso tutto nel Bimby. Non bisogna chiaramente possederlo. Basterà frullare con un comunissimo frullatore i biscotti Oreo (con tutto il ripieno, sì) e il cioccolato fondente e poi unire ingredienti secchi e liquidi aiutandosi con uno sbattitore elettrico o quello che si ha a disposizione. Un frullatore piuttosto “potente” potrebbe ugualmente svolgere la stessa funzione; allo stesso modo un’impastatrice per amalgamare il tutto. Allo stesso modo pure olio di gomito, sacchetto di plastica e violenza inaudita con mattarello. Insomma. Gli ingredienti non necessitano di chissà quale elaborazione. E’ importante che tutto si amalgami e diventi cremoso, compatto e liscio.
In una teglia imburrata per bene si versa il composto ottenuto e si infila in forno a 180 per 40-45 minuti. Dipende dalla grandezza della teglia che si adopera. Io per testardaggine pur sapendo di sbagliare ne ho adoperato una troppo piccolina e quindi l’impasto è diventato eccessivamente alto e apparentemente umidiccio (poi è risultato perfetto, fortunatamente).